La crisi di Capitan America è la crisi degli USA

Le ultime notizie sono tutt’altro che rassicuranti. Captain America: Brave New World sarebbe costato non centottanta milioni di dollari, come risultava inizialmente, ma duecento in più. E stiamo stretti.

I pasticci produttivi che lo hanno caratterizzato, con frequenti cambi in corsa dovuti al feedback negativo che le prime proiezioni avevano generato, hanno sicuramente avuto una parte. La versione finale è quindi emersa come una copia sbiadita e ricca di salti logici di The Winter Soldier, e questo al pubblico non è sfuggito.

Ne risulta dunque che, al secondo weekend, Brave New World al box office italiano era già stato sorpassato da Follemente, di Paolo Genovese. E nel terzo pure dal nuovo Bridget Jones.

Tutto ciò non è sorprendente, per chi allarga lo sguardo alle questioni geopolitiche e non si accontenta di dare la colpa al presunto fandom tossico o ad un razzismo tutt’altro che dimostrabile. Perché raccontare Capitan America oggi è raccontare l’appannamento degli Stati Uniti.

Sì, perché come ha giustamente sottolineato Dario Fabbri, gli USA oggi attraversano un periodo crisi di coscienza. E va da sé che essa non possa non riflettersi sulle produzioni culturali a stelle e strisce.

Nello specifico, negli USA di recente si sono risvegliati dal bel sogno in cui si erano cullati per decenni, ovvero quello che fossero lo stadio ultimo dell’evoluzione umana, e che tutti i popoli anelassero vivere come loro. La scoperta che questo non era vero, avvenuta attraverso numerosi malrovesci, e che anzi alcune comunità rifiutano il loro modello proprio perché loro, è stata un autentico shock.

D’improvviso gli statunitensi, che si ritenevano il faro dell’umanità, hanno sperimentato quello che sperimenta ogni innamorato rifiutato: la frustrazione. E la frustrazione genera non di rado rabbia.

È così che l’entroterra a stelle e strisce ha iniziato accusare i paesi satelliti di essere composti di mollaccioni che stanno comodi sotto la gonna dagli Stati Uniti, mentre questi ultimi rischiano l’osso del collo per garantire la pace mondiale. E gli europei sono i più bersagliati, in tal senso.

Le coste liberal, al contrario, hanno sfogato la loro rabbia iniziando distruggere quel patrimonio culturale che ritengono fonte unica dell’acredine altrui nei loro confronti. E anche qui non mancano le accuse alla tradizione europea, ancorché chiaramente di segno diverso.

Ma la guerra (per fortuna solo tramite i media, al momento) tra i primi più ruvidi ma diretti e i secondi più morbidi ma subdoli, non gettato lo sguardo solo oltreoceano. Anzi, il primo terreno di scontro sono tuttora gli Stati Uniti stessi.

Va da sé che, in un clima sociale tanto incandescente, una figura come quella di Capitan America non poteva non uscirne squassata. La Sentinella della Libertà ha sempre rappresentato, infatti, quello che gli Stati Uniti si sentono, ma nel momento in cui il sentimento è tanto conflittuale diventa fisiologico che un simbolo tanto forte perda valore.

Ne consegue, dunque, che ci sia dunque parecchia incertezza in merito a ciò che il più americano dei supereroi (sì, più di Superman, che in fondo è pur sempre un alieno) dovrebbe essere. E scrivere un personaggio simbolico in un clima di incertezza è per forza arduo.

È da queste premesse che nascono le storie di un Sam Wilson che, nei panni di Capitan America, risulta verboso, lamentoso e molto più retorico di quanto già non fosse Steve Rogers. Ed anzi, per certi verso l’attore Anthony Mackie ha avuto l’indubbio merito di rendere la versione cinematografica vagamente più sopportabile rispetto alla moralistica controparte a fumetti.

Naturalmente bisogna partire da un presupposto imprescindibile, e trasversale. È infatti inutile nascondere che questo tipo di produzioni di massa rappresentino anzitutto un soft power che alimenta il fascino degli Stati Uniti presso i suoi clientes, e che esse nascano di fatto come parte consistente della propaganda imperialistica di Washington.

Ciò chiaramente non significa che non siano comunque apprezzabili o che debbano essere rifiutate in blocco. Semplicemente, ogni volta che ci si approccia a questa narrativa bisogna essere consci che si tratta di strumenti che hanno, come retropensiero, quello di magnificare l’egemone statunitense.

In fondo, ragioniamoci. Non stiamo parlando di un superuomo che compie gesta eroiche richiamando esplicitamente la bandiera a stelle e strisce con il suo costume, e promuovendo allo stesso tempo valori che hanno pretesa di essere universali?