Si chiama semplicemente Dante, e per certi versi è giusto così. Perché quello è un nome che agli italiani già dice tutto, anche se magari la Divina Commedia l’hanno studiata poco e male, o non l’hanno studiata affatto.
Ma Dante è, adoperando un aggettivo decisamente abusato al giorno d’oggi, iconico. Nel senso più puro del termine, non solo perché la sua immagine è immediatamente riconoscibile, ma anche perché la sua opera è divenuta una sorta di mito fondativo della cultura italiana.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita”, “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”, “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” sono solo alcuni dei versi che entrati a far parte del linguaggio più o meno comune italiano.
Ed è certamente questo spirito mitopoietico che ha contribuito a ispirare il film di Pupi Avati. Il quale, appunto, si chiama semplicemente Dante, che la figura del sommo poeta la ripercorre anzitutto da un punto di vista personale.
Non solo il letterato, dunque, ma anzitutto l’uomo. L’innamorato, il soldato, il politico, il dissidente, il fuggitivo: il prisma Dante Alighieri si riverbera completamente in questo film, pur non potendo (per ragioni di risorse, si suppone) soffermarsi troppo su nessun aspetto.
E Giovanni Boccaccio, interpretato da Sergio Castellitto, è tutti noi. Tutti noi che ci avviciniamo con un misto di riverenza e curiosità ad uno dei padri fondatori della nostra cultura, e che piano piano che ci immergiamo nella sua conoscenza scopriamo un uomo come noi, ma allo stesso tempo con valori molto diversi.
Pupi Avati ha quindi il merito di mettere avvicinare Dante allo spettatore. Permettendo a quest’ultimo di mettersi in ascolto per capire cosa questo grande italiano possa ancora dire ai suoi connazionali odierni.