Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori
Roberto Gotta, quanti titoli hai vinto?
Reali, nessuno, per cui il nome della rubrica mi si adatta. Ho vinto dei titoli morali, chiamiamoli così. Cose che ho fatto e che ho avuto la soddisfazione di fare per primo o unico, ma che in genere non vengono riconosciute se non da pochi, quindi sono soddisfazioni unicamente morali.
Ad esempio, parlando di giornalismo ovviamente, essere stato il primo a scrivere un libro di calcio inglese, il primo a scrivere un libro di football americano (manuali a parte), il primo ad avere concepito una rivista ad hoc di calcio inglese, l’inserto per la rivista Guerin Sportivo.
Tante cose dettate dalla mia curiosità, dal mio cercare di andare oltre, Poi quasi sempre sono stato sorpassato da gente più famosa, più ammanicata, più decisa e tutti i ‘più’ che ci possano essere. Però, le cose le ho fatte, ecco. Mi resta quella la soddisfazione, mettiamola così.
Fin dall’inizio della tua carriera ti giostri tra calcio, basket e football, a cui si è poi aggiunto il baseball: ma far girare palloni così differenti non ti rende per certi versi un giocoliere?
Sì, mi sento un giocoliere e non è che mi piaccia molto. Ti dico che idealmente mi sarebbe piaciuto seguire tanti sport ma occuparmi professionalmente di uno solo e viverlo in maniera assoluta. Ti faccio un esempio, il calcio inglese: avrei voluto trascorrere periodi lunghi in Inghilterra, andare a vedere le realtà piccole e allenamenti.
Perché poi la mia filosofia è che prima di esprimersi in merito ad un tema uno dovrebbe sapere non tutto, ma almeno, uso un termine assurdo, tre quarti di tutto. Quando ero già in età da poter lavorare ad esempioho aspettato sei-sette anni prima di propormi al Guerin Sportivo per il calcio inglese, perché non mi sentivo pronto, oltre al fatto che il Guerino aveva già chi scriveva e io di principio non entro mai in campi altrui.
È accaduto nel 1992, a 28 anni, dopo diciassette anni che seguivo quel calcio. Avevo iniziato a undici anni, età in cui non potevo certo lavorare, però ho atteso di avere maggiore consapevolezza e comprensione di quel mondo prima di farmi avanti, e mi sono fatto avanti solo quando, per combinazione, sono diventato redattore (abusivo, ovvero pagato solo ad articoli e non a ore di presenza) di Giganti del Basket che era nello stesso edificio del Guerino, altrimenti non avrai mai avuto il coraggio di farlo.
Ho dei criteri molto rigidi che ovviamente sono ridicoli rispetto a come va il mondo, e i momenti peggiori per me sono quando qualcuno si fida di me al punto da affidarmi incarichi, anche brevi, a cui non mi sento preparato: non posso dire no a nessuno, nella mia condizione di freelance, ma quando dico sì per mancanza di alternative devo mancare di rispetto ai miei criteri e in quei casi spero sinceramente che nessuno mi legga o ascolti. È anche per questo che pubblicizzo poco quello che faccio. Tornando alla domanda, se anche mi fossi specializzato in un solo sport forse non sarebbe cambiato nulla, anzi sarebbe andata molto peggio perché avrei avuto meno opportunità di lavorare. Però diciamo che un po’ invidio chi può occuparsi di uno sport solo: magari ha meno versatilità professionale, ma può vivere di quelle conoscenze e avere meno lacune, anche se c’è il pericolo – ma in realtà a molti piace, e molto – di diventare dei guru, dei prezzemoloni, di credere che di quello sport non ci si possa occupare se non coinvolgendoti.
Da questo punto di vista, lo sport che sento più vicino come conoscenze e capacità di capirlo è il calcio inglese, senza dubbio. Anche se è vero che purtroppo è diventato una moda, un po’ come il basket americano. Magari in minima parte è anche colpa mia. Minima eh, perché è da mitomani di pensare di avere contribuito alla diffusione di uno sport, e ne ho visti, di mitomani. Però sì, è quello di cui mi sento di poter parlare in qualunque momento, senza preavviso, senza dovermi scrivere neanche una riga di appunti.
Oh, Michael! è più un’esclamazione di sorpresa o un’invocazione verso una figura che qualcuno considera messianica?
Guarda, in realtà è frutto di una moda, o anzi, di un tormentone. Perché c’era un periodo in cui a Superbasket avevamo una specie di venerazione, di culto per Wilt Chamberlain.
Che se ne andò proprio pochi mesi dopo la pubblicazione del libro, 1999. E uno dei miei colleghi, molto simpatico, diceva sempre “Oh, Wilt!”: lo invocava con un misto di stupore e rispetto, quasi a dire “Proteggici”.
E allora è nato quel “Oh, Michael!”. Quindi, se avessi fatto quel libro in un altro periodo non si sarebbe chiamato così.
Le reti di Wembley visto adesso è un viaggio nostalgico nella Londra del calcio o nella Londra in generale?
Beh, per come si è ridotta Londra, degrado puro, è diventato nostalgico della Londra in generale. E ci tengo molto, anche se può darsi che nel testo mi sia sfuggito questo aggettivo, a non considerarlo un viaggio ‘romantico’.
Perché molti dicono “nostalgico, romantico… dai, sono la stessa cosa”. No! Nostalgico sì, e lo ribadisco sempre di più, nostalgico di tutto, non solo di quel calcio. Romantico invece no, perché parliamo di un calcio fatto anche di violenza, di sangue, sudore, lacrime, fango. Non c’era nulla di romantico e anzi forse proprio per questo mi piaceva: perché era molto materiale, carnale, e non c’erano quelle esaltazioni eroiche che fanno parte esagerata della narrazione, del racconto, come sai bene, anche di altri sport.
Le Chicago Basketball Stories sono attuali ancora oggi?
Ma sì, secondo me sì, anche perché la mia impostazione da storico fallito, nel senso da uno che non è riuscito a diventare uno storico di professione, è sempre quella di creare testi, come dice Stefano Olivari, l’amico e collega, long selling, cioé che si possano comprare ad anni di distanza e leggere con uguale piacere.
Sul “selling” ho qualche dubbio, visti i numeri, però diciamo che qualunque libro io faccia, anche per rispetto di chi lo legge, deve avere un valore nel tempo, come lo hanno, e devono avere, i libri che io stesso compro da lettore.
Insomma, libri che hanno una base di storia e di fatti così forte da temere solo in parte il passaggio del tempo. “Oh, Michael!” ovviamente, essendo stato scritto nel 1999, era parziale, quello sì, però tutto quello che raccontava di Jordan fino a quel momento, che non per nulla ho ripreso e ampliato nel nuovo libro, è valido, e non ho dovuto cambiarlo. E non per nulla la decisione di proseguire la scrittura, inizialmente avviata poi interrotta per il lockout NBA, fu presa nell’istante, 13 gennaio 1999, in cui Jordan si ritirò.
Ecco, quello, o come il caso del libro su Tom Brady: qualcuno mi ha chiesto perché non faccio l’aggiornamento sul periodo a Tampa Bay e io ho risposto che, a parte che non l’avrei fatto a prescindere, ma poi nel libro in realtà ho raccontato come Brady è diventato Brady. Quindi che vincesse poi uno, due, tre, quattro, cinque Super Bowl era indifferente per la struttura del volume.
Football&Texas lo hai scritto pensando più al football o più al Texas?
Beh, non avrei mai scritto un libro sul Texas senza metterci il football perché non è mia competenza, e poi le vicende politiche – non quelle storiche – mi fanno venire il latte alla ginocchia.
Poi torniamo sempre al discorso di prima, magari qualcuno ha meno scrupoli e se la inventa, la competenza, o la crea con corsi accelerati, dice le cose che la gente che si piace vuole leggere e avanti così. Per cui è chiaro che il football fosse la base, e d’altronde io non riesco a raccontare una cosa senza isolarla da quello che c’è intorno.
Ecco, per il Texas non puoi raccontare il football senza parlare della vastità dello Stato, del fatto che diventasse un modo per esprimere l’identità locale, identità locale che nel football ha mille risvolti: c’erano i figli dei petrolieri, degli allevatori e diventava perciò un terreno di sfida, così come in Ohio c’erano i figli di quelle delle fabbriche di acciaio, gomma e così via.
C’è sempre un motivo, in tutto. E a me piace sempre andare a cercare i perché che sono universali, eterni, non è che questo ritratto che ho fatto cambi tra dieci anni. E a me piacciono i racconti che rimangono.
È poi il motivo per cui non ho mai ambito a lavorare stabilmente in un quotidiano: perché è fatto di cose che un giorno dopo dimentichi. E già facevo fatica in un settimanale, figuriamoci. Il che naturalmente non implica che non si possa fare un grande lavoro, nei quotidiani, ma non è nella mia indole correre dietro alle notizie. L’ideale per me è il libro, ma col libro non si campa. Quindi…
Addio West Ham è anche un addio ad un campionato inglese che non c’è più o che ha semplicemente cambiato pelle?
Un certo campionato inglese non comunque c’è più. Non c’è più e non può tornare e dalla sua prospettiva è giusto che non ci sia più.
Mi viene in mente ad esempio la questione relativa alle abolizioni delle ripetizioni delle partite di coppa, se la partita finisce pari. Ecco, il calcio inglese, termine generico per descrivere un’entità che ovviamente è fatta di mille anime, ha voluto questo.
Perché sennò le grandi squadre giocano troppo. E magari fanno fatica in Europa e i giocatori nazionali sono stanchi.
Ma nel momento in cui tu la prendi, questa decisione è l’ultima goccia. Anzi, nemmeno l’ultima, perché non c’è mai l’ultima goccia purtroppo, ma per sopravvivere hai comunque cambiato la tua identità. Non è neanche un giudizio morale, beninteso, ma un dato di fatto.
Poi, nonostante io sia nostalgico, quando vado in certi stadi mi rendo conto che non sono più all’altezza di un calcio moderno: che poi a me vada bene il calcio antico è un altro discorso, io sono uno su non so quanti miliardi sulla Terra e il mio parere conta per uno, non devo incrementare gli introiti del club, non devo tenere il passo con le altre, non devo andare allo stadio pagando e quindi posso pensare senza vincoli e dire che preferisco un impianto scomodo e antico a uno comodo e moderno.
Ma tornando alla domanda, il calcio inglese che non c’è più è quello che era interessato alla Coppa d’Inghilterra, specialmente al turno di gennaio con l’ingresso di tutte le squadre, come momento importante dell’anno. Momento che oltretutto poteva anche diventare di rinascita, una specie di rimessa in discussione per quelle che non avevano più obiettivi: ricominciava una coppa che non valeva come il campionato (una boutade che purtroppo pure io ho bevuto quando ero più giovane e non avevo gli strumenti per capire) ma che valeva comunque parecchio.
Quindi è purtroppo sparito il calcio inglese insulare, che amavo. È sparito il calcio inglese in cui si giocavano tre partite a settimana e nessuno diceva niente, con rose più ridotte.
Certo, è sparito anche il calcio inglese dell’accalcarsi inumano nelle curve, dell’igiene precaria, delle botte, per carità. Però è diventato un campionato come gli altri, giocato in stadi forse più belli.
Quello che mi piaceva anni fa è che ogni campionato aveva il suo stile, i suoi giocatori, le sue abitudini. Adesso è tutto mescolato, stile, giocatori, e le partite delle nazionali a me sembrano partite in cui i giocatori del club vengono pescati a caso e messi uno contro l’altro, non più espressioni di stili o di filosofie nazionali. A me piaceva un Inghilterra-Belgio in cui i giocatori si incontravano per la prima volta, mentre ora vedere, che so, Foden e DeBruyne una domenica compagni di squadra e sei giorni dopo avversari in nazionale fa un po’ ridere.
Il mondo di Tom Brady è anche il mondo degli Stati Uniti?
In parte sì, però il libro involontariamente racconta anche uno degli ultimi mondi in cui si cerca di cavarsela con le proprie forze senza cercare scuse o giustificazioni e denunciare boicottaggi o mancanze di rispetto. Senza insomma il vittimismo che negli USA è diventato pratica assidua per chi non ce la fa. Brady è stato boicottato da allenatori vari e invece di lamentarsi ha lavorato il doppio. Ed è una cosa che non tutti sanno fare, secondo me. Nemmeno io, lo ammetto.
La Generazione Joe Montana è una generazione che senti tua o estranea?
Eh beh, sai, è la mia. È la mia, ed è la generazione, anche se mi rendo conto che è un concetto da vecchio (pazienza, lo sono), che la domenica mattina vedeva una partita di football della domenica prima, ed era contentissima.
Non sapevi il risultato, ma anche se lo sapevi non perdevi un secondo. Parliamo della metà degli anni Ottanta, in cui quasi nessuno, e io no di sicuro, aveva il videoregistratore, e quindi se ti perdevi un’azione non la vedevi mai più in vita tua. Però ogni volta c’era il gusto della scoperta, dell’irripetibilità di quello che vedevi.
Ora quel gusto è annacquato: io per primo quando vado in Inghilterra e prendo il treno da Stansted a Londra non guardo neanche fuori dal finestrino, sono costantemente al computer. Invece la prima volta, ma anche la seconda e la terza, studiavo il paesaggio casa dopo casa, cercavo di assorbire tutto quello che vedevo. È vero che ora devo lavorare e sono sempre indaffarato e/o sempre in ritardo, ma sono pure io sono vittima dei tempi in cui è tutto più accessibile, frettoloso e quindi meno prezioso.
L’età di Michael Jordan è più una condizione storico-geografica o uno stato d’animo?
Bella domanda. Beh, è un “vecchio” anche lui, obiettivamente. Voglio dire, la maggior parte degli appassionati di basket di oggi non l’ha mai visto giocare.
L’ultimo Jordan valido è quello del tiro contro Utah, e a giugno saranno passati ventisette anni. Ciò significa che bisogna averne almeno 37 per averlo visto consapevolmente e almeno 42 per poter dire ‘io ricordo come giocava Jordan’.
Quindi parliamo di qualcosa che è nel passato, e a molte persone il passato non interessa. E io, pur con una forma mentis da storico, dico anche “Pazienza”. Che è la stessa reazione che avrei se qualcuno mi dicesse “Non mi interessa sapere chi è Michael Jordan”. Non gli direi mai ‘sbagli!: sono contrarissimo alle influenze dirette e alle imposizioni, e ammetto di essere molto irritabile – senza purtroppo darlo a vedere, e dico purtroppo perché se mi irritassi magari qualcuno capirebbe – quando mi arrivano link o suggerimenti a cose da vedere o leggere o ascoltare, per non parlare della mitomania di chi, senza nemmeno essere mio amico, mi manda il link alle SUE opere. No, grazie: se una cosa mi interessa la seguo già, e se non la seguo magari è perché mi irrita pure. L’irritazione, tra l’altro, è purtroppo il mio stato d’animo più frequente.
Lasciando quese divagaziomi, in ambito giornalistico molte testate non chiedono competenza e conoscenza storica a chi lavora per loro, e in parte le capisco, né le richiede il grande pubblico. Quindi ci sta che ci sia chi ha scoperto il basket da poche settimane, apre il profilo eroico sui giocatori NBA e si propone come content creator indossando canotte e scrivendo nella ‘bio’ ‘nato nel paese sbagliato’. Non è sarcasmo: oggi vale questo. A me non va bene, perché in parte danneggia il mio lavoro e le mie possibilità di lavorare, ma non posso farci nulla.
Hai fatto notare che i lettori cercano fonti meno approfondite ma più rapide, però allo stesso tempo si moltiplicano i portali di “sport e cultura”. Come si spiega questa polarizzazione?
Sì, si moltiplicano, ma poi io vorrei sapere quante persone li leggono, esclusi ovviamente i loro stessi creatori o i ‘rivali’ per cogliere l’errore o per copiare o farsi complimenti a vicenda, pratiche che a volte si concretizzano in inviti reciproci a fiere, eventi, convegni.
Quello che mi fa sorridere è che c’è un numero tale di portali che raccontano lo sport in modo originale che non capisco più quale sia quello normale. Nel momento in cui sono tutti ‘originali’, chi lo è davvero? Poi certo, se il modo normale è il quotidiano che occupa metà delle sue pagine a parlare di mercato, meglio essere originali, ovviamente.
Però all’ennesima storia su Robin Friday, sul portiere dimenticato nella nebbia o sui talenti perduti dei playground…
In più, chi le scrive pensa di essere innovativo o più bravo di quello precedente. Io non sono più bravo di quello precedente, ma perdo, o guadagno a seconda dei punti di vista, tantissimo tempo a cercare di dare qualcosa in più, di non scontato. Perché a dare qualcosa di scontato sono capaci tutti.
Vivi tra Vienna e Roma, cioè… Budrio. Sono i tanti viaggi in giro per il mondo che ti hanno fatto apprezzare le piacevolezze della provincia?
Sì, sì, quella frase era una palese presa in giro di quelli che nelle autodescrizioni sui libri scrivono ‘abita tra Roma e Milano’. E devo dire che in questi viaggi ho visto tanto, ho imparato tanto e l’ho applicato sul lavoro: del resto non sono bravo nelle relazioni, anzi credo di essere, nel mondo dei media, quello che ha meno contatti in rapporto alle centinaia di viaggi di lavoro, per cui le mie conoscenze derivano non dalla telefonata all’amico o collega che ti aggiorna ma sulla visione diretta. Però diciamo che vivo in provincia da oltre vent’anni e vedendo lo stato in cui sono ridotte le nostre città sono convinto che non ci potesse essere scelta migliore.
Una risposta a “Zero Titoli: Roberto Gotta”
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