Zero Titoli: Marco Gentili

Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori

Marco Gentili, quanti titoli hai vinto?

Con Over the Skyline ho avuto trentadue selezioni ne ho vinte sedici. Poi ho vinto come Miglior Documentario a New York due volte, con Passo d’Arme.

Inoltre adesso con Aurum, che è stato prodotto dalla mia 301 Filmont, abbiamo la campagna di festival. Siamo già in una nomination a New York e una a Roma. E speriamo che ne arrivino altri.

All’inizio della tua carriera hai avuto una collaborazione con Italian Fishing tv. Pesca e regia quali elementi hanno in comune?

Questa è una bellissima domanda. Bisogna fare però una premessa: nonostante io abbia iniziato in campo alieutico a muovermi con la regia, la cosa che oggi vedo è che l’Italia è un paese completamente alieno a questo specifico settorecinematografico. In altri paesi invece è estremamente florido.

Se guardi ad esempio in America, nel Regno Unito, America Latina, anche in Spagna, ci sono delle produzioni di documentari di pesca che fanno impressione. È veramente cinema.

Una cosa del genere me l’aspetto in sala, invece sono prodotti molto spesso per le tv. Immagina un documentario su un costruttore di canne in bambù in Scozia: è incredibile, e mi piacerebbe un sacco farla.

Il problema è che parliamo di un mercato fondamentalmente che in Italia non esiste e quindi si dovrebbe proiettare più verso l’estero. Che non è un problema perché all’estero l’Italia è molto molto ben vista, però in quel caso sarebbe difficile proporla perché è un prodotto che non esiste in Italia e quindi è molto difficile come mondo.

Per quanto riguarda gli elementi in comune di pesca e regia, sicuramente la pazienza. Devi entrare in un mondo in cui da una parte devi dirigere delle azioni ma dall’altra parte non sai come si possono evolvere.

Alfred Hitchcock ha detto una frase su cui sono parzialmente d’accordo, ovvero che nel cinema il regista è dio e nel documentario Dio è il regista. Io sulla prima parte non sono assolutamente d’accordo anche perché la creatività penso che sia una cosa che ci avvicina a Dio ma non ci rende Dio.

La creatività è qualcosa che non è la creazione, la creatività è un’emulazione. Noi quando siamo dietro la telecamera scriviamo un film e emuliamo qualche cosa ma non possiamo creare, non abbiamo quel dono e quindi sulla prima parte come puoi ben immaginare sono totalmente in disaccordo.

Poi sicuramente serve anche un minimo di follia, perché comunque il fatto di scegliere, di uscire dal proprio letto caldo di notte per andarsi a infilare in un fiume gelido d’inverno o in estate sotto il caldo torrido, sia che tu vada a pesca, sia che tu vada su un set, ecco, un po’ di follia ci vuole. Anche perché se no non lo fai.

Hai girato la serie Atlantic Fever alle isole Haran, e degli spot per le aziende Acquawave e Varivas. A quale dei quattro elementi senti di appartenere? E che cos’è per te l’acqua?

Allora, l’elemento a cui mi sento più affine è sicuramente l’acqua, appunto. L’acqua per me è una connessione, è una connessione fra più mondi. Tu guardi un fiume, guardi un lago, guardi il mare, vedi la superficie ma sotto c’è un mondo letteralmente.

Non è una battuta se dico che si sa molto di più della superficie lunare che di ciò che c’è sotto il mare. E quindi è un mondo a parte, e per me scrivo fantascienza è perfetto.

Di Atlantic Fever ho un grandissimo ricordo perché questa è stata la mia prima esperienza prolungata all’estero mentre lavoravo. Per un periodo sulle Haran che è un posto incredibile, fantastico, un posto meraviglioso, c’è su un altro pianeta letteralmente.

Aquawave e Varivas al tempo erano i miei sponsor per quanto riguardava la tua pesca e quindi mi sono proposto loro. A quei tempi ancora facevo semplicissimo videomaking e quindi ho giocherellato un pochino, e devo dire che mi sono divertito tanto.

Hai anche cominciato una collaborazione con Domus Europa. Come si affronta la geopolitica con lo sguardo di un regista, e che rapporto hanno questi due elementi?

Se tu guardi esempio moltissimi di quelli che sono i registi anche contemporanei volendo, se anche parlano attraverso immagini o l’immaginario collettivo si rifanno sempre ai tempi contemporanei, sempre.

I messaggi che lanciano non sono messaggi che possono essere capiti da una persona del Millesettecento, ma sono messaggi che sono comprensibili alle persone di oggi.

Ergo, la geopolitica, verso la quale mi sono interessato ma come puoi ben immaginare non l’ho mai vissuta in maniera attiva, fondamentalmente mi serviva per avere uno specchio più limpido e cristallino del mondo dove mi accingevo a fare i miei lavori fondamentalmente. Tutto lì.

Geopolitica e regia hanno un rapporto nel momento in cui ti vuoi proporre a uno spettro di persone molto ampio. Se non vuoi soffermarti solo sulla tua borgata ma vuoi espandere i confini, devi sapere attorno a te che cosa sta succedendo.

Sei anche entrato in contatto con l’associazione culturale “Identità Europea”. La tua identità come regista è dunque di stampo europeo?

No, io sono di stampo romagnolo e da quello non mi schiodo nemmeno se mi pagano. C’è una battuta che mi dice sempre la mia compagna, se tu avessi sette generazioni prima di te di origine americana tu parleresti comunque romagnolo.

È questo si vede da molti elementi. Anche nel linguaggio, oppure nella visione d’insieme: io sono uno che scherza su tutto, dissacra ogni cosa.

Mia nonna dice sempre che i romagnoli sono famosi per non aver rispetto per niente e per nessuno, però sono amici di tutti, ed è vero. Io fondamentalmente non mi sento nessuno, non voglio essere nessuno, ma so di essere romagnolo per cui so di essere una spanna sopra tutti. Diciamo che sono nato fortunato.

Il tuo cortometraggio The Joker’s Show per i Musei Comunali di Rimini vuole dimostrare che anche una figura comica e popolare come un pagliaccio può essere una forma di cultura?

Beh, non so sicuramente io doverlo dire, l’hanno detto persone molto più importanti di me, prima. Quel cortometraggio, che poi è qualcosa che abbiamo fatto non in forma amatoriale, di più, sono stato folgorato dopo aver letto The Killing Joke.

È stata la prima opera che ho letto di Alan Moore. Certamente lo conoscevo come autore perché avevo già visto Vita per Vendetta o Watchmen, ma ancora non avevo letto niente.

E poi ho preso in mano le suoi graphic novel e ho capito. Mi sono detto, ok, qua siamo di fronte a qualcosa di grosso, ma grosso, grosso, grosso.

E da lì ho fatto un po’ studiare una figura, che è una figura molto affascinante, seppur estremamente diversa e lontana anche dal mio pensiero. Però è indiscutibile il fatto che sia un autore enorme, gigantesco.

E The Killing Joke è stata una forma non soltanto di ispirazione, ma proprio di visione. Io a vedermi uno psicopatico all’interno di un manicomio, che peraltro abbiamo girato nell’ex-ospedale piccolo di Rimini, dove c’era il reparto di Psichiatrica Infantile.

È stata una roba folle, bellissima, l’abbiamo voluto tanto e quando l’abbiamo fatto siamo proprio rimasti soddisfatti.

Non è un controsenso che un regista con così tanta energia dia vita ad una serie che si chiama Hopeless?

Hopeless era nata con due miei amici. Da poco avevo finito una sequela di spot, era a fine novembre. Non avevo mai girato, a parte The Joker’s Show, che non considero nemmeno un corto, ma più un gioco.

Ci siamo detti, dài, durante dicembre, visto che siamo a casa, facciamo questa cosa. L’abbiamo girata tutta all’interno della soffitta di mio zio, allestita alla bell’e meglio, con l’attrezzatura che avevamo fondamentalmente, perché io non avevo né uno studio né una produzione che mi affiancasse.

Fondamentalmente ci volevamo divertire. Abbiamo girato questa serie, ed io l’avevo già scritta con l’idea che dovesse andare avanti. Doveva esserci la prima stagione, poi arrivare alla seconda e poi finire con la terza.

Per cui alla fine c’è un cliffhanger che avrebbe dovuto riportare alla seconda stagione. Perché senza speranza? Perché fondamentalmente se io mi guardo attorno vedo una marea di persone che sembrano essere senza speranza.

Peròio ti vedo adesso, sei vivo, stai respirando, hai il cuore che batte: la speranza c’è ancora! Che tu la veda nera, o meglio grigia, grigio scuro, è un altro discorso.

Devo aggiungere che praticamente tutto quello che scrivo è legato a Il Signore degli Anelli, e questa era legata a quella che io definisco una delle idee più geniali di Tolkien, ovvero l’apostasia di Saruman.

Saruman da grande saggio passa dal lato scuro praticamente, usando un’altra citazione molto famosa. Jackson ne Le Due Torri è bravissimo a rendere il tutto.

Quando fa quel meraviglioso piano sequenza che mostra l’industrializzazione di Isengard, che crea l’industria della guerra, tutte le armi fatte a stampino, tutte uguali, rozze, ecco lì per me è uno degli apici de Il Signore degli Anelli, che passa dalla rivoluzione industriale, la metallurgia, l’industria, per poi finire insieme all’ingegneria genetica.

Questo perché Lurtz, il primo Uruk.hai, è il prototipo dell’ingegneria genetica di Saruman. Ecco, questo apice e mi è servito tanto per fare Hopeless. Lì ho capito che buona parte di ciò che adesso sembra una scoperta scientifica rivoluzionaria per rendere la vita dell’uomo migliore, alla fine si rivela una fregatura enorme che genera problemi per gli esseri umani.

Tra i tanti video musicali che hai girato c’è quello per il brano Nella tana del Bianconiglio della cantante Keyko. Ogni artista ha una sua personale tana del Bianconiglio?

Io non mi definisco artista, anzi mi tengo distante dal termine “artista”, mi definisco artigiano. Lascio che me lo dicano gli altri, anche se tale io non mi ci vedo.

Quindi Tana del Bianconiglio ancora la devo scoprire. Se la scopro sarai il primo a cui lo dico.

Draconis-La storia del drago di Rimini aiuta a ricordare che l’impossibile è in realtà appena fuori dall’uscio di casa?

Assolutamente sì, assolutamente sì. E anzi, Draconis è stato un’autentica sorpresa.

Quando Draconis ho iniziato a girarlo, la Pandemia stava per scoppiare, però mi ricordo che quando giravo, mi ha dato quell’idea che le leggende sono veramente appena fuori dal nostro uscio.

È inutile cercarle ai quattro angoli del mondo, le abbiamo praticamente dietro casa. E con questa ce ne sono tantissime altre, ad esempio l’unica storia di Lupo Mannaro accertata al mondo che è di Forlimpopoli.

E poi, beh, girare nei borghi della Valmarecchia è stata una roba fuori di melone.

Il tuo cortometraggio Neo-Gaia, su un pianeta sconosciuto da esplorare, è una sorta di risposta a chi diceva che la fine di Gaia non arriverà?

Allora, Neo Gaia l’ho scritto in un periodo particolarmente buio della mia vita, anche questo prima della pandemia, perché si parla del 2018.

Anche lì c’è tantissimo Il Signore degli Anelli, ed è un voler giocare sull’idea che l’essere umano sia invincibile, sul fatto possa essere in grado di fare ogni cosa. Non è assolutamente vero, e Neo-Gaia serve a dimostrarlo.

Quando abbiamo vinto in Sicilia come Miglior Corto, il presidente mi ha detto “Io ho letto un po’ di Tolkien, e qui ce ne vedo tanto”.

Hai diretto Over the skyline. Cosa c’è oltre il tuo orizzonte?

Eh, è oltre l’orizzonte, non posso vederlo, non posso fare altro che cercare di attraversarlo. Fermo restando che, se così fosse, vado oltre qualcosa, e se lo raggiungo poi non vedo che cosa mi sono lasciato dietro, e quindi sta a me scegliere che cosa fare.

È oltre l’orizzonte, spero che ci siano tutte le belle cose.

Aurum, il tuo ultimo lavoro, racconta i misteri legati ad una figura come Cagliostro. Sarà un corto a luci e ombre per un personaggio a luci e ombre?

Allora, luci e ombre sono sicuramente importanti, fondamentali, visto che è un corto girato in bianco e nero. E sicuramente ci sono più ombre che luci.

Perché comunque parliamo non soltanto di un personaggio con luci e ombre, ma parliamo proprio di un argomento.

Un argomento che peraltro tutti pensano essere l’esoterismo, quando vedono il trailer. Però non si parla di esoterismo, si parla di altro. È un tema molto più umano.

Chiaro che una forma settaria c’è comunque. L’esoterismo quindi è presente, ma è marginale, ma molto, molto, molto marginale. Banalmente, è più geopolitica che altro.

Però sì, diciamo che le luci e ombre di un personaggio con luci e ombre vengono messe in scena molto bene.