Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori
Quanti titoli hai vinto?
Di titoli effettivi, per il quale provo anche un certo orgoglio, c’è una medaglietta che una volta ho vinto nei venticinque metri stile libero, in una gara di fine corso.
Battute a parte, sono stati premiati Zemanlandia e Lo sceicco di Castellaneta al festival Salento Finibus Terrae. Da un certo punto in poi, però, ho cominciato a realizzare cose che andavano direttamente in onda, e che quindi non partecipavano a competizioni.
Nel mio percorso c’è sempre una fusione umana e professionale, è un po’ una stella polare. A me interessa una forma di umanesimo calata nell’incontro quotidiano, nella frequentazione di luoghi che possano offrire prospettive meno ovvie di racconto della vicenda umana.
Il programma Fuori binario. Quante volte ti senti fuori binario?
Sempre. E mio padre, curiosamente, faceva i binari, proprio materialmente. Ed io sono nato ad Asti nella Casa delle Ferrovie, vicino alla stazione.
Senza eccedere a facili tentazioni di mitomania, io ho sempre istintivamente cercato figure non omologate. Ed anche al liceo non amavo moltissimo quelli che percepivo si adattassero all’automatismo della moda.
Il mio antidoto in questo caso è sempre cercare di seguire gli individuo, perché ogni individuo per me è un diverso, e quindi una complessità e quindi una concentrazione di contraddizioni. Se guardi l’individuo troverai sempre un’unicità che lo porta a non essere un’ideologia intesa in senso banalizzante.
Questo porta dei vantaggi, a livello interiore, ma anche degli svantaggi. Le persone infatti hanno bisogno di qualcuno che esprima sempre una moda, e se esprimi una moda sei riconoscibile e quindi più vendibile, più piazzabile su un piccolo/medio/grande mercato.
Se non sei omologato invece sei meno inquadrabile. E servi meno, siccome l’omologazione serve per il mercato.
Poi dobbiamo vivere tutti quanti, e tutti quanti abbiamo bisogno di entrare in un circuito di professionalità, se vuoi esprimerti. Però a me piace provare a trovare dei percorsi alternativi, anche all’interno delle grandi strutture.
Lo sceicco di Castellaneta. Potremmo dire che con questo lavoro Rodolfo Valentino lo hai fatto davvero rivivere?
Ho fatto rivivere la memoria, di Rodolfo Valentino, ed era quello che mi interessava. Ed avvicinandoci ai cento anni dalla sua morte, era un modo di raccontare che cos’è un mito.
Nel 2010, quando ho realizzato il docu-film, c’era un’anziana signora, novantacinquenne, che diceva di averlo conosciuto da bambina. Ecco, bisogna pensare ad un paese piccolo, jonico, che genera il primo grande mito della società dello spettacolo, il primo grande mito di Hollywood.
E bisogna considerare che era un uomo di ascendenza latina in un mondo WASP in cui i latini facevano solo piccole parti. Lui è il primo protagonista che affascinava uomini e donne, talmente seducente che buca lo schermo e si installa come mito a livello planetario.
A me interessava come questo piccolo paese avesse rielaborato la memoria. C’era chi voleva portare la salma da Hollywood a Castellaneta, chi ha aperto degli esercizi commerciali legati a lui, per esempio un gommista: l’omaggio e l’oltraggio che si confondono, perché è difficile misurarsi con un mito.
Il mito nella società del mondo greco serviva a vivere, mentre nella società dello spettacolo serve a vendere. La sovrapposizione tra vivere e vendere crea degli effetti tragicomici.
In questo senso, avevo raccontato la storia di questo matto del paese che crede di essere la reincarnazione di Rodolfo Valentino. Ho giocato un po’ con i materiali, ed ho citato anche Mondo Cane di Gualtiero Jacopetti, in cui quest’ultimo rappresentava l’inaugurazione del monumento a Rodolfo Valentino.
Zemanlandia, Zeman. Un marziano a Roma, Due o tre cose che so su di lui. Esiste uno Zeman nel cinema italiano? Se non c’è, quanto pensi ce ne sia bisogno?
Il rapporto con Zeman è stato fondamentale perché è stato prima di tutto un rapporto umano fortissimo. Infatti io dico sempre, in forma di piccola battuta, che lui ha lanciato tanti calciatori e, più in piccolo, un documentarista, permettendogli di fare un lavoro che sognava di fare.
Per raccontare la sua storia, infatti, si è affidato ad un trentenne sconosciuto che aveva un curriculum minimo. E lo ha fatto senza chiedere mai un centesimo, anzi, venendo anche a spese sue a Foggia.
Questo credito che poi mi ha concesso mi ha permesso poi di andare in onda su SKY, di fare due libri con cofanetto con Minimum Fax, e di avere una risonanza nazionale. Penso che lui sia contento: nella sua autobiografia mi ha ringraziato vicino a nomi enormi come Antonello Venditti e molti altri.
Zeman ha il rigore, la concentrazione e la convinzione sui propri mezzi espressivi che hanno gli artisti. Quindi la sua idea di calcio con i canoni che ben conosciamo ha questa sacralità.
Io ho sempre che ha anche un volto cinematografico, e l’ho scelto come oggetto di analisi anche per quello, perché mi affascinava per quella potenza di ingresso nell’inquadratura. Lui è un Clint Eastwood diretto da Kaurismaki.
È unduro con un cuore bambino straniato, e una dolcezza di fondo dietro questa apparente durezza che si coniuga col mondo surreale e favolistico, ma allo stesso tempo un po’ grottesco. Ho immaginato che se a Zeman cadesse addosso un muro, lui sposterebbe lentamente i calcinacci e continuerebbe ad andare per la sua strada.
Nel cinema italiano un tempo c’era un personaggio alla Zeman, che poteva essere Gian Maria Volonté. Ovvero uno con grande rigore personale, etico, di quelle persone che non vivono solo per i soldi ma fanno dei film in base anche alle loro idee, non solo per diventare delle star commerciali.
Parliamo di un altro cinema, di un altro mondo. A parte qualche eccezione che si muove su altri piani, oggi questo non c’è più, e l’immaginario ne risente.
Pino Daniele e il Naples Power, Napoli e la bella giornata. Vedi Napoli e poi…?
…morire, dobbiamo morire tutti! Io a Napoli sono legato perché ho molti amici, è una città che, al di là dei suoi cliché, che vengono sbandierati ma che pure fanno parte della sua natura, è fondamentale leggere l’Italia e la contemporaneità.
Napoli è una città piena di misteri, di stratificazioni, ed è un’ottima prospettiva per guardare l’Italia con uno sguardo obliquo, meno ovvio, più laterale, e fondante allo stesso tempo. Napoli è intelligenza, bellezza, creatività, e allo stesso tempo abissi.
Per quanto riguarda il documentario su Pino Daniele, che all’epoca era ancora vivo, ho voluto raccontare una persona che veniva dalle viscere di Napoli, con un grande talento, una grande creatività, che riesce a reinventare il linguaggio del suo luogo. Prende la lingua napoletana e la cala nel blues, nel jazz, nel rock.
Come ha fatto Sergio Leone, ha riciclato e rielaborato le influenze dall’America, creando un linguaggio totalmente autonomo e arrivando a grandissimi successi artistici e di pubblico. Cinquant’anni dopo il suo esordio, quelle canzoni hanno ancora un valore linguistico, sociale, artistico, uno spaccato di linguaggio, di un territorio, di una città che è fucina di talenti e di prospettive sul reale.
Il secondo documentario sullo scudetto del Napoli, io sono andato in città a marzo, quando avevano venti punti di vantaggio, ma erano scaramantici: non festeggiavano, ma la città si imbandierava, metteva i “3” dappertutto…
C’era questa tensione bella di attesa spasmodica, che si collegava ad altre attese della città. L’attesa eduardiana che passi la nottata, l’attesa della bella giornata del romanzo Ferito a morte di Raffaele La Capria.
A me mi interessava parlare del tifo superficiale, ma dell’intrecciarsi delle attese, delle aspettative, delle illusioni, delle delusioni, delle malinconie, del vitalismo di questa città. Come ai tempi di Zemanlandia, il calcio come vetrina per raccontare qualcosa che abbia una terza dimensione, che sia lente d’ingrandimento di uno spaccato sociale.
The Cuban Hamlet. Tomas Millian era uno da essere o non essere?
Beh, sì, sicuramente. Questa mia narrativa su Tomas Millian è partita da un’amicizia, è diventata un documentario, poi un libro e l’anno prossimo un fumetto.
Mi sono avvicinato a lui perché aveva vissuto diverse vite. Alta borghesia cubana, nell’élite di una Avana molto pre-Castro, quindi una sorta di colonia americana e della mafia italiana, come si vede anche ne Il Padrino.
La sua vita cambia con il suicidio del padre, depresso dopo essere caduto in disgrazia. Un trauma fortissimo, ma che allo stesso tempo lo rende libero dal genitore dittatoriale.
Vede James Dean, e pensa di poterlo emulare. Dopo un miracolo ingresso all’Actor Studio di New York, conosce il compositore Menotti, che lo porta a Spoleto. Da lì, quarant’anni di cinema italiano, in cui fa cinema di grandi autori, spaghetti-western, poi il poliziottesco e infine Er Monnezza.
Con le maschere asseconda con la sua vita, con le pelli che cambia, i mutamenti del cinema e della società italiana. Per poi, nell’ultima fase sua vita, lavorare con Spielberg e Soderbergh, da comprimario.
Nel 2014 l’ho riportato a L’Avana, per raccogliere l’emozione del suo ritorno a casa, che non vedeva dal ’56.
Ultimo giro. Il mondo che volevi raccontare è scomparso a causa di un’illusione o di qualche illusionista?
A me non interessava elogiare un truffatore, quanto piuttosto evidenziare le sue contraddizioni. Ad esempio l’utilizzo della parola per circuire il prossimo.
In Ultimo giro si racconta infatti di una persona che non fa solo il gioco delle tre carte, ma prende il pollo e lo porta con sé per andare a ritirare altri soldi al bancomat. Ecco, mi interessava la storia personale che il truffatore si inventa per entrare in empatia con la vittima di turno.
Da un lato quindi abbiamo la ferocia, ma dall’altro invece c’è l’utilizzo della dialettica e della parola per entrare in sintonia con l’altro. Avendoci parlato, ho capito che quest’uomo ha imparato a dialogare per truffare, non lasciandosi però andare a fare cose peggiori.
Hollywood sul Tevere. Era un modo per riflettere su Hollywood o su Cinecittà?
Su Cinecittà. Anche se il vero focus è rappresentato dal sottotitolo, Storie scellerate, tratto dal film di Citti,
Sono storie che lambiscono Cinecittà, storie molto italiane. Storie di solitudini, di individualità piene di contraddizioni, molto rivelatrici di un mutamento antropologico italiano.
Grandi talenti, grande amoralità, grande incrocio con figure con percorso accidentato, un arco di vita molto legato al paese che stava cambiando.
Tracce di Bene. Quanto c’è bisogno di tracce di bene, oggi?
Sicuramente Carmelo Bene, che peraltro compare anche nelle storie scellerate di Hollywood sul Tevere, è un arco di esistenza che rovesciava delle convenzioni. A me piacciono molto quelli che credono profondamente in quello che fanno, in qualsiasi settore, e quindi ci mettono rigore, e sono più attenti alla sostanza che all’esteriorità.
Carmelo Bene era scandalo: il suo attentato più grosso è stato quello al linguaggio. La sua grandezza era sia il grottesco che il tragico, il massimo del comico in un’epoca in cui non può più esistere il tragico perché nulla è più vissuto come tragico.
Riusciva a tenere in equilibrio il massimo dello slancio poetico commovente con il rovesciamento di sé, allo stesso tempo. È stata questa la sua grande artisticità.
Nel mio piccolo io ho preso un audio, in cui raccontava al suo migliore amico alcuni aneddoti della sua vita, come fosse una delle Sturiellet di Andrea Pazienza. Su questo audio ho costruito delle sequenze cinematografiche.
A perdifiato-Storia di Michele Lacerenza. Quanto spesso il tuo lavoro ti fa perdere il fiato?
È una condizione che sento, e che voglio continuare a sentire sempre, fino alla fine. Fino a quando sarà l’ultimo giro.
Anche in quel caso si tratta di una contraddizione. Una persona che aveva suonato la tromba per Moricone e per Leone, con l’assolo di Per un pugno di dollari, ma veniva dal mondo delle bande pugliesi, che portavano nelle piccole città del Sud l’opera lirica.
E questo lo faceva negli anni Trenta e Quaranta. Con il suo talento ha suonato con i circhi equestri, con l’avanspettacolo, con Wanda Osiris, e poi arriva alla surrealtà del grande western, ma quello fatto a Roma.
Una vita intensa, cercando sempre la stella polare del talento, della necessità di raccontare il proprio tempo con i propri mezzi. In quel caso era la musica.
Le Ombre elettriche le abbiamo tutti?
Ombre elettriche è un titolo un po’ surreale che ho dato alla storia di tre pittori irregolari. Anche in quel caso, mi piaceva perché erano tre figure che attraverso l’utilizzo di un linguaggio cercano di raccontare il proprio tempo.
Erano Franco Angeli, Tano Festa e Mario Schifano, che rovesciano il modo di esistere, vivendo come rockstar al di fuori del mondo dell’arte, in modo romanzesco. Allo stesso tempo, però, un grande rigore nell’intuizione pittorica, prendendo dall’America la pop art e trasformandola in qualcosa di molto loro.
A questo ci possono arrivare tutti, a patto di non essere omologati. Se preferisci stare dentro uno slogan non sei dissonante, sei armonizzato, e rappresenti una minoranza o maggioranza più o meno silenziosa.
Devi invece trovare dentro te stesso l’unicità del tuo percorso, che tutti hanno. Ogni vita è irripetibile, bisogna assumersi dei rischi.
Romantici a Milano perché hai trovato una Milano troppo cinica?
La Milano che cambia pelle, violenta nella sua evoluzione continua, nella sua capacità di accumulare denaro, di fare impresa, di essere una città con dei ritmi europei, e forse mondiali, lascia però dietro sé qualche maceria, qualche figura che va ad una velocità diversa.
Per questo volevo capire se oltre alla Milano del city life, del mondo degli influencer, della moda, del calcio, della gente che vive nell’attico da dieci-quindici milioni di euro, ci fosse ancora una Milano che ha fatto parte della storia d’Italia da tanti punti di vista. Industriale, politico, creativo, editoriale, giornalistico.
I frammenti di questo passato quanto sono ancora vivi? All’ombra di city life Milano resiste, esiste?
Ha ancora dei suoi percorsi?
La nostalgia fine a sé stessa non mi piace, preferisco comprendere quanto i germi del passato possano essere spendibili nel presente, quanto possano essere ancora vivi e formativi.