Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori.
Giuseppe Cozzolino, quanti titoli hai vinto?
Non tantissimi, anche perché non mi sono mai messo a concorrere in modo particolare a determinati titoli, premi o competizioni. Ho cercato sempre di fare il mio lavoro nel mio ambito: sono stato un po’ meno ossessionato di tanti dall’idea di ricevere questo o quel riconoscimento.
Ho avuto dei premi legati alla mia attività legata a Totò, così come ho avuto altre segnalazioni in questo senso, ma non li ho inseguiti.
Non me ne sono curato più di tanto, e questo anche a mio discapito, ovviamente. E mentre altri esaltano anche premi minori, il sottoscritto, pur avendo avuto dei riconoscimenti nel corso degli anni, se n’è pure dimenticato.
Per dirtene una: anche quando, nella mia attività di scrittore, c’erano alcuni concorsi storici come l’Urania o il Premio Italia, ho partecipato pochissime volte.
Hai scritto di esserti occupato di cinema, letteratura e fumetti “degenere”. Dunque ti senti degenerato?
La battuta nasce dal fatto che nella valutazione “accademica” di questo paese chiunque si occupi di certe tematiche, come lo spettacolo, e chi nutre ambizioni di voler lavorare in modo continuativo in questo settore, non avendo altre attività parallele, viene considerato un po’ un tipo strano, appunto “degenere”.
Quindi chi come me, e come tanti prima di me, si è occupato da sempre di cinema, di fumetti e di letteratura di genere come l’horror, la fantascienza, il mistery, il giallo, sul versante della considerazione accademica spesso e volentieri ha avuto delle difficoltà, in quanto ritenuto qualcuno che trattava di letteratura del disimpegno non degna di essere considerata dal punto di vista degli studi.
Parliamo comunque di generi che in Italia hanno successo sin dagli anni Cinquanta. Penso a collane come il Giallo Mondadori o la già menzionata Urania, che raccoglievano un pubblico vasto.
Per fare il solito esempio di un paese vicino a noi: in Francia chi fa fumetto o letteratura di genere gode di tutt’altra considerazione, oltre che di un certo tipo di sistema che potremmo chiamare “assistenziale”, che ti dà diritto ad un minimo di riconoscimenti sul versante economico, se sei un artista.
Hai trattato tanto il genere Sci-fi. Condividi però che la vita a volte sa essere molto più immaginifica della fantascienza?
Quello sì, ne abbiamo avute tante dimostrazioni anche in questi ultimi anni. Del resto tanti lavori di fantascienza tra editoria, cinema e fumetto si basano comunque su delle idee, delle intuizioni, legate anche all’osservazione della vita reale, cercando anche prevedere quello che sarà lo scenario futuro fra dieci anni, un secolo o un millennio.
Quando si pensa ad un certo impazzimento mediatico che viviamo noi in Occidente, tutta una serie di situazioni ci dicono che la realtà e la fantascienza si inseguono. Scrittori come James Ballard, tanto per dirne uno, hanno dedicato tanti ottimi lavori a questo inseguimento tra realtà e fantasia, tra manipolazione della mente e trasformazione di usi e costumi in qualcosa di totalmente debordante.
Pensiamo a Crash, tanto per fare un esempio: sono un libro ed un film che raccontano una realtà distorta che però rispecchia magari certe situazioni, o addirittura le anticipa.
Potremmo citare anche Philip K. Dick, in questo senso. Sono tutti lavori in cui ci sono delle convergenze inquietanti con la realtà, e non si capisce se sia nato prima l’uovo o la gallina.
Arcana-Storie dell’impossibile. Ti è mai capitato di incontrare una produzione talmente fuori dalla realtà (in positivo o in negativo) da dire “No, questa cosa è impossibile”?
La serie web che io produssi era un piccolo omaggio del mio gruppo di lavoro ad Ai confini della realtà. Direttamente ho incontrato diverse realtà produttive interessanti sia a livello amatoriale che professionale.
Di cose in grado di superare determinate barriere ne ho più sentito parlare. I miei incontri sono stati tutti spesso stimolanti, ma inerenti a produttori, registi, artisti, che anzitutto si mettevano in gioco con progetti originali ma in un ambito comprensibile, decifrabile.
Di altre realtà produttive borderline me ne hanno invece solo parlato.
Partiamo dall’associazione Mondo cult. Cos’è il cult, e perché qualcosa diventa tale?
“Di culto” è ovviamente un termine che può voler dire tutto ed il contrario di tutto, anzitutto quella produzione che travalica i confini del tempo in cui viene prodotta. Ovvero quel tipo di produzione che effettivamente, per una ragione o per un’altra, non lascia il tempo che trova, ovvero esce nel dato anno e magari quello dopo è già stata dimenticata quasi da tutti.
Al contrario, magari all’inizio non è ben accolta, o è sottovalutata, e poi con il passaparola anche più elementare raggiunge lo stato di fenomeno di culto, quindi di qualcosa che vari appassionati cominciano a consigliare ad altri amici, e li accomuna fino ad una sorta di “delirio” per questa specifica produzione.
Il libro Cult Tv. Perché sembra impossibile trovare una produzione attuale che potenzialmente possa diventare un cult?
Che oggi sia molto più difficile creare prodotti che durino nel tempo, beh… credo che la prima spiegazione sia quella più semplice: viviamo in una realtà frenetica, in cui l’intrattenimento è spesso investito da queste piattaforme multimediali, come Netflix, Prime o Disney+.
Queste sono realtà che anzitutto puntano a creare sempre nuovi contenuti, e secondo me sbagliando già da questo punto di vista perché ce ne sarebbero tanti del passato da conservare e valorizzare altrettanto.
Siccome però alla base di tutto c’è la dinamica produttiva sempre più massiccia e costante di contenuti nuovi, perché bisogna vendere, vendere, vendere, generando anche quella sorta di alienazione di cui parlava anche Karl Marx, è normale che questi prodotti che vengono realizzati in quantità industriali nove volte su dieci non rimangono nella memoria.
È anche voluto, secondo me: tu devi dimenticartene e passare subito a qualcosa di altro. Nella strategia attuale di questi realizzatori/produttori di contenuti deve esserci sì un minimo di risposta positiva, perché altrimenti lo spettatore abbandona, però deve essere qualcosa di usa e getta, come un cibo fast food.
Una volta invece, per quanto concerne gli audiovisivi, non funzionava così. C’era il discorso della produzione industriale, ma parallelamente c’era l’idea di elaborare dei contenuti in grado di appassionare e fidelizzare continuativamente.
Sono cambiati i ritmi, e purtroppo è cambiata anche la soglia di attenzione delle persone.
Il tuo libro Planet Serial. Ti capita di sentirti un alieno rispetto ad un mondo di cui ti sei occupato nel corso della tua vita professionale?
Io non mi sento un alieno, mi sento un terrestre che è circondato da molti alieni che hanno invaso il nostro pianeta.
Sono gli altri, o meglio, molti di essi, che attraverso anche una serie di eventi poco piacevoli che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, a mio parere si sono trasformati in extraterrestri.
Hai fatto un corso che si chiamava Saper vedere il cinema. Il cinema va più visto o va più guardato?
Un po’ e un po’. Bisogna guardare e bisogna comprendere ciò che si guarda, approfondirlo, ed innamorarsi di quello che si vede.
O comunque analizzare e decidere se quel contenuto fa per te o non fa per te.
Il progetto Noir factory. Ma il noir, per poter appassionare, non necessita di una componente artigianale?
Sì. Come la fantascienza, anche il noir è un genere-madre, da cui derivano tanti altri sottogeneri, e parla a quel lato nascosto di tutti noi, quel lato della nostra psiche che magari ci teniamo per noi e che attraverso la scrittura possiamo far emergere.
L’esperimento Sherlock Lab. Sherlock Holmes è stato esplorato fino in fondo o manca ancora qualche aspetto da analizzare?
Sherlock Holmes alla fine, da un certo punto di vista, è stato ormai sviscerato in tutte le salse possibili, da tanti addetti ai lavori e da tante associazioni.
È stato scritto tantissimo, e c’è una costruzione interessante di analisi sul personaggio, sugli scenari, sul periodo storico, sulla filosofia di quegli anni, e sul suo autore, Arthur Conan Doyle. Quindi alla fine è emerso tutto ed il contrario di tutto, ma è anche vero che tanti dovrebbero riscoprire questo personaggio e le sue avventure.
La detection è infatti una sfida lanciata al cervello di tutti noi, alla riflessione, all’osservazione, a quel metodo scientifico di osservare la realtà senza pregiudizi, come invece oggi purtroppo succede.
Un Totò al giorno toglie il medico di torno?
In teoria sì, perché Totò è indubbiamente l’emblema di una visione della realtà, che io prediligo, basata sull’ironia, sul sapere ridere della vita, sull’amare però anche la vita nelle sue componenti più elementari.
Guardare un film di Totò al giorno, o sentire anche solo una battuta, serve ad affrontare meglio la vita. Per me è anche un modello per combattere il politicamente corretto di questi anni maledetti.
Totò non avrebbe approvato tante cose che oggi invece sembrano all’ordine del giorno.
Uomini come lui, anche dal punto di vista umano, rappresentano un altro mondo, che bisognerebbe riscoprire.
Vintageverse. Hai scelto gli anni Sessanta come zenit della libera espressione o come inizio della decadenza?
Bella domanda questa. Guarda, in realtà ho scelto gli anni Sessanta come riferimento, anche se in realtà il nostro campo d’azione comprendono i Cinquanta e i Settanta, perché sono il momento in cui la libertà creativa e la felicità delle popolazioni, almeno quelle dell’Occidente con la Swinging London o la Hollywood sul Tevere, erano al massimo.
Era un mondo in cui pareva che una certa idea dell’economia, della libertà, della cultura, rappresentava un modello vincente per tutto il resto del pianeta. Il mio interesse era ri-raccontare quel mondo, quell’atmosfera, aggiungendoci però dei miei personaggi, delle mie storie, attingendo a piene mani da questi scenari.