Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori
Elisabetta Cancelli, quanti titoli hai vinto?
Non voglio tirarmela ma… non ho il conto! Facendo una media, potrei di averne vinti dieci a cortometraggio almeno. Posso fare l’esempio di Reference, dove abbiamo vinto al Milan Shorts Film Festival, il Florence Film Awards come Miglior Sperimentale e Miglior Colonna Sonora. Mi va di citare anche The Master, dove abbiamo vinto il premio come Miglior Poster ai Rome Prisma Film Awards, dove torniamo ogni anno molto volentieri.
Questi sono anche esempi dove abbiamo partecipato di persona al festival, e sono stati incontri bellissimi. Il fatto di vincere anche premi come Miglior Thriller o Miglior Horror, nonostante il mio intento primario sia portare nel cinema la corrente romantica, è una soddisfazione. Ed è molto importante, perché fa tutto parte della corrente romantica, che esplora un ventaglio di significati, da quello inteso nel senso più classico di romanticismo a quello più di inquietudine dell’essere umano.
La tua casa di produzione si chiama Silent Dream. Ci sono sogni che invece fanno rumore?
Assolutamente sì, i sogni fanno un sacco di casino! Ti sei mai svegliato dopo un incubo e avevi la risposta ad una domanda che ti ponevi da tanto tempo? Io credo tantissimo nel fatto che l’inconscio sia il miglior alleato della nostra realtà, perché riesce a trasmetterci in modo simbolico e metaforico molte risposte.
Può esistere anzi una realtà molto silenziosa, in cui sono i sentimenti a parlare, e ci sono invece dei sogni che urlano, che ti danno risposte, che ti mettono dei dubbi. I miei personaggi pensano tanto, riflettono tanto, sognano tanto, anche ad occhi aperti, o dormono: in ogni mio cortometraggio c’è una scena in cui un personaggio o si sveglia di soprassalto o dorme.
The Brave Talk. C’è bisogno di discorsi coraggiosi? Siamo in un’epoca di parola pavida?
Secondo me sì, perché siamo bombardati di informazioni. Facebook, Instagram, Snapchat e Tik Tok hanno fatto esplodere un concetto già presente prima, ovvero che più che comunicare con l’altro, ti mostri all’altro, confondendola per comunicazione.
Bisogna usare i social, non farsi usare dai social. Quindi, per venire alla domanda, riuscire a promuovere sui social un messaggio di consapevolezza e di coraggio per ispirare le altre persone, stando però attenti a non rincorrere la ricerca di fama, l’ostentazione.
Influencer o personaggi conosciuti rischiano di perdere quel bisogno da documentario di parlare seriamente di un argomento, e sfociare invece in quello che può essere un narcisismo fine a sé stesso. Questo è un discorso che vale anche per chi ha subito violenza: questa non è un’accusa, ma è proprio un invito a non cadere nella trappola di questo sistema di ego, che rischia di trasformare una testimonianza importante del proprio vissuto doloroso in un fenomeno da baraccone, fondamentalmente, che può essere sottovalutato o non preso sul serio.
The Master. È più simile al master di un gioco di ruolo o a quello di dinamiche dominatore-dominato?
La risposta più immediata e banale che ti darei è: “Tutt’e due”. Essendo però chiaramente un cortometraggio che parte dal mio amore per Chtulu, per il Solitario di Providence, ti direi di più, molto di più, la prima.
È una metafora di essere artefici del proprio destino, di ciò che farai successivamente. Il vero nocciolo di The Master è: quanto può l’arroganza di una persona segnare il suo destino sin dal principio?
Semplificando moltissimo il discorso, se fondamentalmente sei una persona arrogante non ci saranno molte varianti nella tua vita, perché quelle decisioni prenderai. Non ti metterai in discussione, non vivrai avventure alternative, non proverai cose nuove.
The Master è un io che si sente perfetto, ma quando inizia ad essere messo in dubbio, lì, paradossalmente il suo destino inizia a cambiare. Quindi sì, la metafora si sposa meglio con la prima opzione.
Sul filo del rasoio. Anche tu, come i Negramaro, con questo corto hai disegnato a mezz’aria una capriola?
Sul filo del rasoio è nato da un forte senso di rabbia, molto diverso dalla corrente che voglio portare avanti, ovvero quella di un femminismo che non è altro che un riequilibrare il rapporto uomo-donna, che è un rapporto alla pari.
È un cortometraggio che parla di disperazione, e di esasperazione. C’è da dire che è un corto che realizzato tre anni fa. Nel tempo però si matura, ed ora mi piacerebbe capire come avrei potuto realizzare in modo diverso determinate cose.
Il messaggio che però vorrei che passasse, piuttosto che una distinzione tra cos’è giusto e cos’è sbagliato, è che non bisogna portare una persona al limite come è stata portata la protagonista, soprattutto da parte di chi dovrebbe proteggerti, amarti.
La vittima non può farci niente se non, per istinto di autoconservazione, provare per il carnefice
odio, bisogno di liberarsene, fino alla gioia. Quindi sì, una sorta di capriola a mezz’aria.
A place for us. Esiste un posto così per tutti?
La felicità va costruita, esattamente come l’amore. È un impegno. Non ti arriva come una torta di compleanno che più la paghi, più è figa. Mi sto rendendo conto sempre di più che non è “Fico, cascami in bocca!”.
Quindi secondo me sì, ma ci vuole prima di tutto forza di volontà da entrambe le parti. E forza di volontà vuole dire che non basta piacersi, non basta andare d’accordo: occorre proprio esserci l’uno per l’altro, ad esempio non rompendosi le scatole perché l’altro ha una giornata storta.
Ogni tanto, come si dice in Perfetti sconosciuti, bisogna che uno faccia un passo indietro. Ci vuole tanto, tanto lavoro, impegnandosi tanto a rispettare l’altro come se fosse un fratello/una sorella o un amico/un’amica.
Non come se fosse un oggetto del desiderio, che se non è esattamente come te lo immagini o vedi che ha dei difetti e non ti piace, poi lo riporti in fabbrica. Quindi, per tornare alla risposta, sì, ma devi chiederti anche cosa stai dando tu all’universo, da cui non ottieni quello che vuoi, ma quello per il quale ti stai impegnando.
Dobbiamo volere bene a noi stessi ed al mondo. Anche perché molto spesso un posto bellissimo è una persona.
Letter to a man. Quanto spesso vorresti scrivere una lettera ad un uomo? E per chiedergli cosa?
Che bella domanda! Parto dalla risposta più facile: cerco di non serbare rancore per ex, relazioni oppure per semplici situazioni di frequentazioni o figure maschili che sono passate nella mia vita e che non mi hanno lasciato un bel ricordo, perché sono state quelle tipiche figure che ad una donna fanno dire “Ah, sono tutti uguali”.
In una scena in un mio film futuro vorrei che ci fosse una scena che contenesse una conversazione che ho avuto tante volte nella mia testa con ognuna di queste persone che nei miei ricordi non mi ha trattato bene.
Più precisamente, una spiegazione: “Perché l’hai fatto? Io ci tenevo, e ti ho voluto bene: perché hai dovuto dirmi quella frase, se sapevi che poteva farmi stare male? Perché hai dovuto trattarmi così? Cosa ti ha fatto pensare che fosse così facile trattarmi in quel modo?”.
Probabilmente dall’altra parte riceverei la stessa risposta “Non era mia intenzione”, anche se nella realtà è sempre stata “Esageri, sei drammatica”. E secondo me, in generale, c’è un sottovalutare le azioni che potrebbero far stare male l’altro, o un rendersi conto dopo.
In ogni caso, non credo che la conversazione che avrei in una lettera non credo che sarebbe mai arrabbiatissima. Sarebbe piuttosto una nostalgica richiesta di spiegazioni.
Il lavoro con Deep Mind Film Factory. Trovi che nel cinema attuale di profondità di pensiero ce ne sia poca?
Deep Mind Factory è del mio carissimo amico Luca Bertossi, con cui ho collaborato. Io e Luca credo avessimo la stessa idea quando abbiamo scelto l’indirizzo di pensiero dei nostri lavori, quindi grossomodo sullo stesso discorso di Silent Dream.
Secondo me, per colpa dei social, le persone diventino un po’ isteriche, e talmente bombardate di informazioni che il cervello poi si disabitua ad approfondire, e questo poi ci rende apatici. Emerge poi una sorta di depressione, perché poi le informazioni non ci bastano mai, mentre invece i film durano molto tempo, penso a quelli di Denis Villenuve o Christopher Nolan, o a quelli di Bollywood.
Quindi sì, l’approfondimento in quest’epoca rischia di non esserci. Invece è bello quando magari sei costretto a guardare un film dall’inizio alla fine, che magari all’inizio non ti interessava, ma poi stai lì per tutta la durata: alla fine ti senti soddisfatto, anche se non ti è piaciuto, perché hai potuto approfondire qualcosa.
Hai collaborato con Jotassassina, che si occupa di inclusione. Non trovi però che talvolta ci sia chi lotta per l’inclusione escludendo alcune categorie? Come si può porre rimedio?
Metto subito in chiaro che la Jotassassina organizza eventi LGBT, a Trieste e in generale nel Friuli-Venezia Giulia, in cui tutti sono i benvenuti. Ho sempre visto persone di tutti i tipi, di tutti i colori, di tutti gli orientamenti: quindi, nel loro caso, nulla da dire.
Esulando da questo, devo sottolineare come il problema delle fazioni si crei molto di più nell’associazionismo. Contesti che io tendo ad evitare, così come determinate situazioni di manifestazioni che io mi rendo conto non essere amichevoli, o che non sono del tipo che chiedono tolleranza e allo stesso tempo la danno.
Non sono mai stata d’accordo con il porre dei limiti. Se ad un Pride difendiamo il diritto di amare, non bisogna escludere nessuno. È lo stesso discorso di prima: sei la vittima che vuole portare la propria esperienza e trasformarla in un messaggio concreto e preciso o vuoi un momento di shock, di notizia, di polemica?
Reference. A cosa volevi fare riferimento?
Reference parla di traumi, di brutte esperienze che vengono purtroppo incollate su una persona che purtroppo con quei cattivi riferimenti non c’entra. E ciononostante rimane la paura di rimanere delusi, di rimanere feriti.
È un lavoro che continua a seguire la corrente di Letter to a man, A place for us. Tra i protagonisti si interpone questa figura di una persona oscura, che crea un precedente.
La vittima deve fare il suo lavoro per elaborare il trauma, e per non trascinarselo anche in situazioni che potrebbe godersi. Dall’altra parte, però, che deve ragionare sul giustificare un comportamento sbagliato di una terza persona, chiedendosi se quest’ultima rappresenti o meno i valori che invece si vorrebbe avere in una determinata situazione.
Oltre al portarsi dietro un riferimento sbagliato, viene fuori quindi anche il discorso, relativamente giusto, dell’omertà. Ancora una volta, è un invito alla vittima a prendere in mano la situazione, e non relegarsi in una situazione di completa passività.
Sei attrice ma anche doppiatrice. Il livello di immersione nel personaggio è lo stesso?
Ti rispondo con una frase che ho sentito: “Il cinema è realtà, il teatro è vero”. Può voler dire tutto è niente, ma mi piace tantissimo perché sono due tipi di realtà e di verità diversi.
Non sono d’accordo con chi dice che il cinema è più verosimile: il teatro, se interpretato a dovere, anche se esagerato, anche se folle, riesce a farti sentire vicinissimo ai tuoi sentimenti ed alla tua percezione di realtà.
E così anche il doppiaggio, che è molto ingannevole, perché hai la sensazione che parlando normalmente stai parlando come una persona comune, ed in realtà ti riascolti e non hai trasmesso un bel niente, perché hai parlato senza mettere quello step in più per raggiungere il significato.
Nel teatro devi cercare di raggiungere l’ultima galleria, e invece nel cinema devi riuscire a diventare simbolico, perché se esageri rischi di saturare ciò che vuoi portare. Sono linguaggi diversi, però la verità è la stessa.
Nel doppiaggio devi trasmettere l’emozione ad occhi chiusi, ti deve penetrare perché non c’è la persona. Si avvicina molto ai racconti alla radio.
Lady Darkness. Quanto è importante essere in contatto con la propria parte oscura?
Importantissimo, perché se non la ascolti ti torna a cercare. E hai a che fare con le tue parti oscure quando hai a che fare con un’altra persona.
Spesso, ma non sempre, è questione di accettare oppure contrastare la nostra parte oscura. A volte si tratta di lasciarla scorrere e aspettare che ci abbia detto quello che vuole dirci.
E come un bambino che si arrabbia, puoi decidere di tirargli una sberla, ma tornerà ancora più inviperita e rancorosa, oppure gli dài ragione. Ma stai dando ragione, e le redini in mano, ad un bambino, e magari sei un adulto.
Tu devi ascoltare questo bambino interiore, e dirgli “Ok, va tutto bene. Potresti anche avere ragione, ma calmati e spiegami qual è il problema”. E probabilmente si calmerà, prenderà la forma di un bambino dolcissimo e ti dirà: “Quella cosa mi fa paura, non voglio farla” oppure “Questa cosa mi ha dato fastidio, parliamo con quella persona per dirle che questa cosa mi ha dato fastidio”.
Quindi sì, è fondamentale avere a che fare con la propria parte oscura. E dialogarci, con tanta pazienza.