Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori
Chiara Poli, quanti titoli hai vinto?
Pensavo che mi chiedessi “Che belva si sente?” già mi sento meglio, così. Battute a parte, ho vinto decine di migliaia di titoli, tutti i film e tutte le serie tv che mi hanno emozionata, che mi hanno fatto venire voglia di fare questo lavoro, che mi hanno annoiata quando ero alla Scuola di Cinema e per punirmi il mio Professore di Sceneggiatura mi faceva vedere Kaurismaki, perché sapeva che mi faceva diventare pazza.
È come quando senti una canzone e torni un po’ indietro negli anni a un momento, a una situazione. Ecco, per me i film sono così e ho tantissimi ricordi belli, ma anche tanti ricordi brutti legati a film e serie che stavo guardando in determinati momenti della mia vita.
Io sono malata cronica da tanti anni, da quando mi sono aggravata e ho una mobilità molto limitata sono sostanzialmente sempre in casa, spesso fra letto e divano, io ho vinto la possibilità di distrarmi, di pensare ad altro, di innamorarmi di storie, di spaventarmi, di divertirmi.
Premi in sé per sé invece no, non ho mai partecipato a concorsi. Forse quando ero alla Scuola Cinema e facevamo esercitazioni sul campo o ci facevano fare per esempio gli speciali di montaggio.
Si trattava di una collaborazione fra sceneggiatura e montaggio, avevamo montato una serie di spezzoni di film con un testo tematico che avevo scritto e poi bisognava presentarli alla classe per gli esami. Ha vinto il mio gruppo. Ma non credo che conti, quindi no, non ho mai partecipato a nulla che prevedesse dei titoli, né scritto qualcosa che sia poi stato prodotto.
Durante l’esperienza di un progetto con Mediaset infatti mi sono resa conto che a me piaceva di più l’attività di analisi dei prodotti audiovisivi. Per cui ho cominciato a fare i corsi di analisi del linguaggio nelle scuole, dalle elementari all’università, i corsi di aggiornamento per gli insegnanti, e non sono proprio più riuscita a smettere.
C’è un solo leader. Chi è il leader ideale di Chiara Poli?
Allora, io lo dico sempre quando parlo di serie, di film, che i personaggi sono la chiave vincente. Tu crea una serie o un film in cui fai innamorare il pubblico di un personaggio e avrai un successo garantito. Crea una serie in cui i personaggi di cui ci si innamora sono tanti e avrai il cult.
Secondo me il leader ideale chiaramente parlando appunto, di unpersonaggio, è chi in qualche modo sa ispirare le altre persone. Che poi li debba ispirare a sopravvivere in un’apocalisse zombie, a guardare la vita con un sorriso come Ted Lasso, a divertirsi o anche a mettersi continuamente alla prova come ha fatto Sheldon Cooper, l’importante è che abbia qualcosa che stimoli gli altri personaggi e che in questo modo porti avanti la storia.
Per cui io credo che The Walking Dead sia un ottimo esempio di come il personaggio che è stato scelto come il nostro punto di riferimento diventa poi il punto di riferimento di tutti quelli che lo incontrano.
Il mondo de Il Trono di Spade è un mondo fantastico, o è più reale di quel che si immagini?
Allora è chiaramente un mondo ambientato in quello che si chiama in sceneggiatura “mondo straordinario”, cioè il mondo della narrazione in buona sostanza. Tuttavia ha delle dinamiche che sono decisamente legate alla storia dell’essere umano.
Tenendo presente che si tratta di un’ambientazione pseudo-medievale di tipo fantastico, bisogna però rilevare che storicamente parlando gli esseri umani ne hanno fatte francamente di peggio rispetto ai poveri personaggi de Il Trono di Spade. In generale, quindi, credo come sempre che la chiave sia l’universalità delle tematiche trattate, delle storie.
I personaggi hanno sentimenti e vivono situazioni che sono universali, che tu li metta a dare la caccia a un drago o che tu li metta su un’isola deserta in cui succedono cose strane. Credo che la chiave di volta sia in questo caso il riferimento proprio che riesci a dare all’aspetto umano di tutti questi personaggi.
È qualcosa che fa la differenza anche nel processo di identificazione, perché tu o sogni di diventare un personaggio oppure ti affezioni così tanto al personaggio che soffri per lui, temi per il suo destino, fai il tifo per lui quando è in difficoltà.
Quando scattano questi meccanismi di identificazione hai vinto dal punto di vista della sceneggiatura, della passione del pubblico. E il Trono di Spade di personaggi così direi che ne abbia un buon numero.
I rompicoglioni non muoiono mai. I critici dell’audiovisivo quanto devono essere rompicoglioni?
Secondo me pochissimo. Per me il senso del mio lavoro è quello di guardare una produzione con l’occhio diciamo clinico e spiegare a qualcuno perché dovrebbe perdere del tempo a vederlo, o perché sarebbe meglio che lo risparmiasse dedicandosi a vedere altro.
Per cui nel momento in cui io ti tiro fuori le tematiche, l’ambientazione, l’evoluzione dei personaggi se c’è, se non c’è, se è verosimile, se non lo è e tutti questi elementi, ti so in qualche modo dire se un prodotto è oggettivamente valido. Poi ti può piacere il genere, ti può piacere il tipo di storia, ti può piacere il tipo di linguaggio, come può non piacerti.
I cattivi nelle serie tv. Ne hai incontrato qualcuno nel corso della tua vita?
Eh sì, però più cattivi di quelli delle serie tv. Sai, nelle serie tv alla fine un personaggio per quanto possa essere cattivo deve avere almeno un appiglio per quel processo che si chiama redenzione, altrimenti il pubblico sì, se lo guarda, ma fino a un certo punto.
I cattivi reali sono cattivi veri, non hanno quei rimorsi, quei sensi di colpa o quei flashback in cui rivivono tutte le cose che hanno fatto o rivedono le persone che hanno ferito. Quindi io preferisco le serie, potendo scegliere.
Crimini e serie tv sono un connubio indissolubile?
Beh, sono un connubio indissolubile nel senso che il poliziesco è probabilmente il genere più fortunato e sfruttato nella storia delle serie tv. Perché comunque sono storie che si possono svolgere nell’arco di quaranta-quarantacinque minuti con episodi autoconclusivi.
Ovvero quel tipo di episodi che ti danno soddisfazione perché comunque in un’ora, con la pubblicità, si arriva a una conclusione del caso, e ti distraggono perché sono lontani dalla tua quotidianità. E anzi, il problema semmai è quando il crimine diventa una cosa reale.
Penso ad esempio ai true crime che tanto vanno di moda. Adesso la sparo un po’ grossa, però io trovo che siano un po’ il corrispettivo della coda che si forma in autostrada in senso inverso quando c’è un incidente. Hai presente quando tutti rallentano e si formano chilometri di code dall’altra parte della carreggiata perché tutti rallentano per vedere cosa è successo? Perché la gente per ignoti motivi vuole vedere probabilmente il dramma, magari perché è emozionante.
Ad esempio io avevo visto in anteprima Qui non è Hollywood, quella che quando l’ho vista io si chiamava ancora Avetrana. Quando l’ho vista e recensita, ho poi letto di molta gente che l’ha considerata una delle migliori serie degli ultimi anni, avvincente.
In realtà è una tragica, anzi, più che tragica storia vera. Con un cast pazzesco che ha fatto i numeri per entrare nei panni di personaggi, per l’amor di Dio, scomodissimi e quindi tanto di cappello, ma dal punto di vista della storia stiamo parlando di un caso che ha sconvolto l’opinione pubblica.
Lì bisognerebbe riflettere su “la migliore serie degli ultimi anni”, perché secondo me il confine fra il true crime e il voyeurismo è sottile, per cui fra la coda in autostrada in senso inverso e il fermarsi a prestare aiuto c’è differenza.
Io la vedo un po’ così, bisogna stare un po’ attenti sull’opportunità e il modo in cui si raccontano certe cose. Se poi vai a creare un prodotto che ha tanto successo per la bravura del cast e la gente si esalta sulla storia, a mio parere non è una vittoria.
Comunque fa tutto brodo nel business, ti danno i soldi, fai altre produzioni, vai avanti. Però ecco, io due questioni me le pongo.
Qual è L’anima del vampiro?
Allora, io ho usato questo titolo per sviscerare tutta la storia di Angel, però viene da molto lontano, cioè il vampiro è una figura ammantata di fascino da sempre. Dal vampiro di Polidori al Dracula di Stoker, ma fin da Murnau nel 1922 al cinema.
Fin da allora il vampiro è questa figura un po’ ammantata di mistero, che si introduce di notte nelle case, però teoricamente dovresti dargli il permesso altrimenti non può entrare. In questo rappresenta chiaramente la moralità repressiva vittoriana da cui è nato il romanzo di Stoker.
Nella frustrazione dell’epoca ha avuto origine questa metafora della sensualità del morso, il sangue che diventa la vita, il propagarsi della specie con un nobile decaduto. È questo il senso del vampirismo dal punto di vista letterario.
La vera anima del vampiro quindi viene da lì, ed è questo il motivo per cui piace. Poi magari fai una serie su una cacciatrice di vampiri che si innamora di un vampiro e tu dici “Vabbè, ragazzi, ma che banalità”, e invece funziona perché ci metti la questione dell’anima, il sentimento, e soprattutto la questione del senso di colpa del vampiro che uccide perché è la sua natura.
Senso di colpa che poi è l’anticipazione di Dexter, perché comunque le tematiche sono sempre quelle. Poi vengono declinate in maniera diversa, ma il motivo del successo di Dexter è che Dexter è sostanzialmente come un vampiro che “povero”, lui non ha colpe, è la sua natura, è così, fa quello che può.
Ammazzavampiri. Se incontrassi Buffy, sareste amiche, rivali o vi ignorereste a vicenda?
Ah no, io l’amerei tanto, l’amerei. Guarda ho sempre scritto questa cosa, sin da da quando è uscito il libro nel lontano 2003.
Quando si chiede “Qual è tuo il personaggio preferito di Buffy?” tutti rispondono Spike, Giles, Angel, Willow… Ecco, il mio personaggio preferito di Buffy è Buffy.
È un personaggio fantastico. È una ragazza che è ironica e auto-ironica, gioca un po’ a fare la scema, soprattutto all’inizio, matura davanti ai nostri occhi.
Passa dalla ragazzina, la sedicenne sciocchina, biondina, che vuole andare alle feste e “Oddio invece mi devo fare le ronde perché sono la prescelta” a colei che salva il mondo ben due volte sacrificandosi.
È un personaggione, quello di Buffy.
Maniaci seriali. Anche tu sei seriale, a tuo modo? Ed in cosa, nel caso?
Io sono seriale proprio in tutto e per tutto, perché credo che le cose fruite così diano il massimo rendimento dal punto di vista emotivo.
Io, che mi impegno a fare l’analisi anche dei contenuti e delle emozioni che una serie o un film può suscitare nello spettatore, sono molto seriale in questa cosa. Se comincio la devo finire. Proprio non ce la faccio a fare altrimenti.
A volte magari non mangio, ed è un caos. Torna mio marito dal lavoro, a me magari mancano ancora tre episodi di una roba da vedere in inglese e vado avanti a finirle invece di guardare lui (si fa per dire, eh). Ed è così anche con i libri. Se trovo un titolo che mi prende è finita, cioè lo devo concludere altrimenti poi non riesco proprio a staccare mentalmente.
La vita è un telefilm. La tua di che genere è?
La mia purtroppo è un medical drama, molto medical. Avrei tanto sperato in una bella comedy, però purtroppo vivo in un medical drama.
Esco praticamente solo per andare in ospedale. Mi seguono tanti specialisti che spesso magari parlano di patologie che non ho mai avuto occasione di sentire nella vita, però ho visto quindici stagioni di ER e quindi sono sostanzialmente quasi laureata in medicina (ride).
Ecco, da questo punto di vista mi sento ferratissima e ho imparato tante cose, così come con le diagnosi del dottor House. Devo però dire che ho smesso di guardare il genere, perché ho sempre amato molto il medical drama prima di entrare a farne parte.
Mi ricorderò sempre il giorno in cui mi hanno diagnosticato il morbo di Crohn. Vado a casa, guardo e nell’episodio di ER c’è un paziente molto molesto; i due specializzandi si mettono d’accordo per fargli paura facendogli credere che ha il Crohn.
Lì mi sono detta “Ecco, me l’hanno appena diagnosticato e in ER lo usano come spauracchio per i pazienti rompiballe”. Mi sono spaventata da morire e lì ho cominciato un attimo a rallentare, ecco. Preferisco pensare ad altro quando posso.
Marley chi?, il miglior amico dell’essere umano è ancora il cane, o adesso è lo schermo?
No, no, no, il miglior amico dell’uomo e della donna è sempre il cane questo è fuor di dubbio. Se tu pensi che poi una delle serie migliori degli ultimi anni è Afterlife, in cui Ricky Gervais ha inserito anche un cane, capisci che sono due cose sostanzialmente indivisibili.
Io le serie tv le guardo con i miei cani in braccio. Recupero rottamini dai canili da ormai vent’anni, ne abbiamo sempre due o tre. Quindi per me cani e schermo sono una cosa unica, perché si guardano sempre insieme.
Hanno visto più serie miei cani di tanta gente che conosco e che ne scrive…
Hai collaborato a Morto e mangiato. Fanno più paura gli zombi nello schermo o quelli fuori?
Beh chiaramente quelli fuori. Anche perché c’è un tipo di zombismo in giro dilagante, ragazzi, che scansati proprio. Tanto per cominciare i morti viventi alla Romero, quelli classici per intenderci, è un attimo schivarli, visto che ci sono tanti film serie e situazioni in cui questa cosa della lentezza dello zombie che non sa usare neanche gli attrezzi più elementari gioca a favore dello sfigato umano di turno.
Poi, più o meno verso l’inizio del nuovo millennio hanno rifatto Dawn of the dead e sono arrivati gli zombie che correvano. Lì ci siamo resi conto che era cambiato qualcosa.
Per cui la metafora prima del consumismo, della paura della perdita d’identità, il rischio della massificazione che Romero denunciava con i suoi film, è diventato un fatto assodato. Intendo che noi siamo ugualmente massacrati dal consumismo, solo che corriamo sempre più veloce per andare a fare shopping.
Guardati intorno, guarda cosa c’è oggi in giro. Pensa anche solo fenomeno degli influencer, che è una specie di epidemia, tipo un morbo che trasforma le persone in zombie perché arriva uno, fa qualcosa di nuovo in un campo e poi altri dieci milioni in tutto il mondo lo copiano. Se non è zombismo questo…
A me queste cose fanno un po’ paura. Io vedo anche gente che conosco, e che considero intelligente, che segue persone che non sanno mettere insieme una frase di senso compiuto in italiano eppure hanno milioni di follower.
Vendono prodotti e hanno successo, per carità, buon per loro, però anche su questo mi faccio delle domande. Anzi, potremmo dire che sostanzialmente io passo la vita a farmi delle domande.