Zero titoli: Chiara Pazzaglia

Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori

Quanti titoli hai vinto?

Zero. Sono perfettamente in target.

Tu ti sei laureata in filosofia nell’era del tecnicismo. Perché?

L’ispirazione principale me la diede l’aver trovato un’ottima insegnante di filosofia al liceo. È una materia che io non conoscevo prima di affrontarla a partire dal primo anno di liceo, che al classico è il terzo anno.

Sono sempre stata in cerca di risposte alle tante domande che mi venivano in mente sul mondo, sulla vita, sul funzionamento dell’animo dell’uomo. Erano in parte domande a cui avevo dato una risposta con il mio essere cattolica praticante, ma ad un certo punto non mi bastava avere certezze in questo senso, e volevo fare domande e avere risposte a queste domande.

Come dice Aristotele, la filosofia nasce dalla meraviglia. Ecco, io ero stupita da tutta la bellezza che mi circondava nel mondo, così come avevo interrogativi anche sulle cose cominciavo a vedere intorno a me nell’adolescenza.

Era quindi un desiderio di trovare risposte alle tante domande che avevo, e mi sembrava che la filosofia le avesse tutte. Quando ci si confronta con la malattia di un congiunto, o con la morte di persone a cui vuoi bene, penso ai miei nonni: tutte queste domande mi sembrava necessitassero di una risposta più complessa di quella secca che può dare la scienza.

Nello studiare materie come la biologia o la chimica, poi, mi sembrava che qualsiasi domanda scientifica avesse sempre un fondamento filosofico, e che in qualunque cosa ci fosse intrinseco un quesito filosofico. E in effetti così è, ne sono ancora convinta.

E poi in particolare io ho studiato logica, perché avere un pensiero ordinato e coerente mi pareva che fosse la base di una buona vita. E anche di questo sono ancora convinta.

Tu scrivi per Avvenire. Ecco, che tipo di avvenire sogni per il giornalismo?

Sì, ovviamente fare la presidente della ACLI non è un mestiere. Il mio lavoro è quello di giornalista: sono iscritta all’Ordine, e ci credo, ancora, nell’utilità di questi ordini professionali, nonostante le critiche e le problematiche che ci sono nel confronto con i social o con chi si improvvisa.

L’avvenire della comunicazione ha molto a che fare con l’evoluzione dell’Intelligenza Artificiale, perché sono sempre stata convinta che quello del giornalista, o dello scrittore in generale, sarebbe stato un mestiere difficilmente sostituibile dall’IA. Adesso inizio un po’ a ricredermi, perché non avevo immaginato si sarebbe raffinata in questo modo.

Per cui penso che il futuro del giornalismo sia da un lato sia un buon utilizzo di questi nuovi strumenti tecnologici con cui comunque, volenti o nolenti, dovremo fare i conti, mentre dall’altro che sempre di più il giornalista avrà un ruolo nel cosiddetto, anche se non mi piace usare inglesismi, fact-checking. Ovvero il cercare di orientare le persone nell’informazione, perché a tutti, credo, capita di vedere a tutti sui social delle falsità.

Quindi penso che la formazione del giornalista debba andare proprio nella direzione di essere autorevole nella verifica delle fonti, nella serietà della preparazione, nell’etica del giornalismo, proprio per differenziarsi dalle Intelligenze Artificiali che producono spesso fake news. Dovrà essere, più che altro, un lavoro di validazione autorevole e formata di quello che raccontiamo.


Apricittà. In cosa consiste l’apertura di una città?

La nostra rivista si chiama così proprio per questa ragione, perché lo scopo sarebbe non indirizzarci solo ai soci delle ACLI, l’associazione che presiedo, ma a tutta Bologna, che è il nostro riferimento. Lo scopo della comunicazione associativa è quello di aprirci non condivide la nostra ispirazione, alcuni dei nostri valori, ma cercare comunque il dialogo con tutti.

Affrontiamo temi di diverso genere, orientati agli ambiti principali della nostra azione, che sono il lavoro, il sociale, un po’ la cultura. Cerchiamo di capire da un lato qual è la situazione di Bologna, dall’altro che cosa potremmo fare noi per questa città.

Coordinamento Donne. Quanto le donne ACLI sono coordinate? E quanto invece scoordinate?

C’è una riflessione in corso già da qualche anno nell’associazione proprio sull’identità del Coordinamento Donne, e sull’opportunità che esista un Coordinamento Donne. Ci sentiamo spesso ripetere: “Se volete la parità, perché creare una riserva indiana per le donne?”.

In realtà il Coordinamento Donne è un po’ il luogo dove si sviluppa il pensiero femminile dell’associazione. Vorrebbe essere anche un luogo di solidarietà delle donne con le altre donne.

A livello locale funziona abbastanza bene, mentre a livello nazionale spesso nelle dinamiche associative prevalgono interessi personali o del territorio di appartenenza, rispetto a questa identità di genere.

Nel mio caso la partecipazione al Coordinamento Donne mi è servita molto dal punto di vista formativo. È quello che mi ha fatto avvicinare alla dimensione nazionale dell’associazione, e personalmente mi ha fornito diverse occasioni formative che per me sono state importanti, ad esempio il corso “La leadership femminile” al Pontificio Ateneo “Regina Apostolorum”.

Sul progetto “Adotta un nonno” dell’incontro terza età e bambini ha per caso influito “Il Curioso Caso di Benjamin Button”?

Forse più che altro il film su quell’anziano che scappa dalla casa di riposo perché non ci vuole più stare e vive meravigliose avventure. Per quanti ammirevoli sforzi facciano le persone che ci lavorano, che le gestiscono, infatti, la casa di riposo ha una tristezza intrinseca.

Lo dice sempre anche il nostro cardinale Zuppi, se fosse per lui non esisterebbero, e ci sarebbero altre soluzioni per gli anziani autonomi, semi-autonomi o non autonomi. Oggi come oggi è difficile trovare altri contesti, anche se adesso ci sono esperimenti di case-famiglia e di villaggi di co-housing, però ancora la nostra cultura è molto lontana dall’appianare completamente questa situazione.

Ciò di cui ci siamo resi conto è che l’età senile porta con sé tantissima solitudine, anche quando si riesce a fare vita in famiglia ci si sente un po’ un peso, socialmente inutili. E noi volevamo scongiurare questo rischio, perché riconosciamo un protagonismo attivo molto importante nella terza età.

Con questo progetto noi abbiamo voluto trovare anche agli anziani fragili o non autosufficientiuno scopo, un posto nel mondo, fosse anche solo una presenza silenziosa di esempio o di catalizzatore d’affetto per questi bambini che hanno partecipato al progetto. E devo dire che ha funzionato.

Ed ha funzionato sia nelle modalità Covid, con le telefonate e le videochiamate a distanza, sia nelle presenza fisica, dopo tanti anni di distanziamento. Tuttora ci sono delle relazioni tra questi nonni adottati e questi bambini, che dopo quattro anni sono cresciuti eppure continuano a telefonare a questi anziani.

Adesso poi i bambini animano le case di riposo con le chiacchiere, i giochi, le letture. Da una parte e dall’altra c’è tantissimo beneficio, e la cosa più commovente è vedere anziani con blande demenze senili che a volte faticano a riconoscere i parenti o le operatrici della casa di riposo che magari da una volta all’altra ricordano il nome dei bambini o li riconoscono e si rivolgono loro affettuosamente.

Alcuni di raccontano di tenere nel comodino le letterine che scrivono questi bimbi, e di pensarci la sera prima di andare a dormire. Sono cose che aprono veramente il cuore, ed è quello di cui abbiamo adesso, perché è nel rapporto tra le generazioni che si gioca tutto il nostro futuro sociale.

Acli Arte e Spettacolo. È l’arte che fa la società o la società che fa l’arte?

Questa è una domanda molto filosofica. Posso dire quello che facciamo noi: noi cerchiamo di usare l’arte e la cultura come strumento sociale.

Non facciamo cultura fine a sé stessa, come svago o divertimento. Tentiamo di farlo come arricchimento personale, dell’anima, ma anche di inclusione di ragazzi fragili, con disabilità, detenuti, anziani, donne vittime di violenza, chi ha patologie psichiatriche, o un disagio psicologico molto molto forte.

Utilizziamo questo strumento quando non ci arriviamo in altro modo, non come stile ma come mezzo. Cultura, arte, teatro, musica, sono linguaggi universali.

Hai scritto il libro “Mi prendo cura di lei”. Quanto è sottovalutato il gioco d’azzardo femminile? E perché sui media di solito finisce soprattutto quello maschile?

Quello maschile è più noto perché è più antico. Semplicemente, una volta erano molte meno le donne dedite al gioco perché le donne hanno una sorta di ritrosia, di pudore, a mostrarsi alle slot machine, e non hanno interesse per le scommesse sportive, quindi non le si ritrova nei luoghi degradati del gioco d’azzardo classico.

Le donne sono spesso alle sale bingo, un po’ come antidoto alla solitudine, o spesso dal tabaccaio a comprare il gratta e vinci o, sempre più spesso, ed è questo che ha fatto schizzare la ludopatia femminile ai massimi storici, al punto da raggiungere i livelli degli uomini, giocano online.
Il fatto di poter giocare dal cellulare, nel segreto della loro stanza, ha cambiato molto le carte in tavola, perché non c’è più quel pudore del non doversi mostrare giocatrici incallite, magari venendo giudicate da amiche, vicine di casa o commercianti che possano incontrarle.

Fra l’altro il gioco d’azzardo è stato normalizzato anche attraverso i social, che sfuggono alle regole sulla pubblicità del gioco d’azzardo, che non sono rispettate. E abbiamo notato che ci sono algoritmi che proprio targetizzano in pieno le donne.

Mentre gli uomini giocano d’azzardo a giochi più complessi, dove perlomeno si illudono che debba esserci del ragionamento, tipo il poker o le scommesse sportive, le donne invece giocano alla roulette, quindi giochi di pura fortuna, immediati, e non di tattica o di strategia.

Giocano come passatempo, ma anche, molte volte, pensando di poter essere in questo modo utili in famiglia. Magari sono casalinghe, non lavorano, e credono di poter contribuire alle finanze famigliari.

Poi ci sono anche quelle che non sono direttamente ludopatiche, ma che subiscono la ludopatia di un congiunto, che spesso lo rende violento, depresso, poco collaborativo nella gestione domestica. E questo porta magari non alla ludopatia anche nella partner donna, ma in sindromi depressive o altre forme di dipendenza patologica, ad esempio disturbi alimentari o psichiatrici.

È una piaga sociale del nostro tempo, dove siamo sempre più isolati. E quindi questo gioco d’azzardo non può che aumentare.

Hai partecipato all’evento dell’associazione Next, in materia di immigrazione. Next, quindi “prossimo”. Quanto spesso l’immigrato viene visto più come “prossimo” in senso evangelico, e quando come “il prossimo” inteso come concorrente ad una sorta di reality?

Penso sia una domanda che dobbiamo farci in primo luogo noi cattolici. La realtà che qualsiasi governo che abbiamo avuto ha fatto politiche migratorie totalmente sbagliate, e lo dico dal punto di vista di chi, con il patronato, ogni anno fa migliaia di pratiche relative all’immigrazione.

Il pregiudizio penso nasca proprio dalla totale incapacità di gestire questo fenomeno, sempre trattato come emergenza quando da vent’anni non è sicuramente più un’emergenza. Il passaggio culturale si fa semplicemente regolarizzando in maniera razionale: bisogna trovare, anche nel campo della politica, trovare soluzioni efficaci anche per l’accoglienza.

Non si capisce perché una gestione così irrazionale da far venire persone disperato, che perderanno presto i documenti perché non riusciranno mai a soddisfare il requisito contemporaneo del lavoro e della residenza nel poco tempo che gli è concesso per trovarlo, finendo ovviamente per delinquere, e al contrario non facciamo venire, con la lotteria del “Click Day”, quelli che avrebbero già un posto di lavoro.

La Bottega delle Idee. Quanto c’è bisogno di idee che nascano in bottega, e non preconfezionate?

Credo che di idee serva proprio una bottega intesa come una bottega artigiana, una fucina, di ispirazione, da parte di chi si sporca le mani tutti i giorni con i problemi quotidiani della cittadinanza, con cui convive e a cui cerca di trovare soluzioni per le singole storie.

Io penso che se la politica non ascolta l’esperienza concreta di chi si mette in gioco sul territorio farà poca strada.


Parole di Management. Come si concilia il management con la Dottrica Sociale della Chiesa?

Questo è un tema chiave. Fare il presidente delle ACLI comporta l’onere di essere datore di lavoro di numerose persone, e quindi di avere la responsabilità di numerose famiglie.

Da qui la coerenza massima di dover fare quello che si predica all’esterno, e non è semplice far quadrare i conti, perché l’azienda non è la tua ma deve sopravviverti, sopravvivere al tuo mandato, e devi lasciare al tuo successore una situazione possibilmente migliore di quella che hai trovato tu. Dall’altro lato, noi dobbiamo fare non profitto, ma comunque andare in pari per riuscire a pagare gli stipendi.

Dopodiché, tutto quello che noi leggiamo nella Dottrina Sociale della Chiesa bisogna cercare di applicarlo prima di tutto al nostro interno. Noi proviamo davvero a mettere al centro non i numeri, il bilancio, le nostre aspettative o i nostri desideri di carriera, ma la persona, come dice la DSC: con più o meno successo, ma diciamo che l’intenzione c’è sempre.


Le ACLI di Bologna hanno promosso formazione politica in ambito cattolico. Quella della Chiesa nel mondo contemporaneo è voce di uno che grida nel deserto?

L’etichetta di cattolici se la danno in tanti, in prossimità delle elezioni, soprattutto quando vengono a cercare i voti nelle nostre associazioni. Noi non chiediamo certificati di battesimo a nessuno, e cerchiamo di sostenere le persone che hanno davvero una formazione coerente con i nostri valori.

La formazione è fondamentale perché non la fa praticamente più nessuno: una volta i partiti, così come organizzazioni come la nostra, erano il posto dove si formavano le coscienze. I dibattiti politici nelle Case del Popolo non ci sono più, così come non c’è più la voglia di impegnarsi.

E nel mondo cattolico sembra una vergogna: ci si lamenta che i sono cattolici non vengano scelti dai partiti o non ricoprano in posizioni apicali, e poi quando uno si candida o viene eletto sembra che abbia compiuto un peccato mortale.

La verità è che senza la formazione questi discorsi non hanno nessun senso, perché o una persona va veramente lì a rappresentare i nostri valori, o è mettere solo una bandierina o un’etichetta addosso a qualcuno. E sinceramente noi ne abbiamo già avute abbastanza nella nostra storia di rappresentanze vuote e di etichette date alle persone sbagliate.

Noi pensiamo anzitutto che conoscere il Catechismo e la Dottrina Sociale, i valori fondanti del cristianesimo, cercare di essere coerenti senza farci la nostra religione scendo ad personam ciò che ci piace e ciò che non ci piace, formando rettamente la nostra coscienza, sia molto importante. Perché poi quando devi andare a votare per certi temi etici sei tu di fronte alle tue responsabilità, e non hai modo di confrontarti. Per questo noi proponiamo una formazione seria, che poi consenta di decidere secondo quello che è il meglio per la propria coscienza.