Quo vadis: la Turchia guarda Gerusalemme, Roma guarda la Turchia

Data giusto di un anno fa. Era il dicembre 2024, e Devlet Bahceli, grande alleato di Recep Erdogan, se ne usciva così: “La storia ci dice che la prima fermata sulla via verso Gerusalemme è Damasco. Quando Damasco è conquistata, anche Gerusalemme è vicina”.

Economista, fondatore dei Lupi Grigi (quelli, per intenderci, di cui fece parte Alì Agca), Bahceli ha lasciato cadere una frase da non sottovalutare. In prospettiva sia geopolitica che teologica.

Non una novità, intendiamoci. In fondo è una posizione affine a quella dello stesso Erdogan, che qualche anno fa aveva definito Gerusalemme come città più sacra dell’islam al pari di La Mecca e Medina.

Ora, premessa: Turchia continua ad essere un impero, e gli imperi di norma la storia la conoscono. Quindi è legittimo pensare che anche da quelle parti non si siano dimenticati del passato, come invece abbiamo fatto qui.

Si può supporre, ad esempio, che sappiano che i loro antenati regnarono sulla Terra Santa per quattro secoli. Mantenendo lo Status Quo sui Luoghi Sacri, regolando anche i rapporti tra cristiani.

I rapporti furono orientativamente di tolleranza condizionata. Cristiani ed ebrei erano dhimmi, protetti, ed in cambio del riconoscimento della sovranità musulmana godevano di libertà di culto.

Poi nel 1917 gli ottomani furono sconfitti dagli inglesi. Essi istituirono il Mandato Britannico di Palestina, su cui si innestò poi la Dichiarazione Balfour, che fu un appoggio per il movimento sionista. A sua volta base, come il lettore certamente saprà, dell’attuale stato di Israele.

Con l’Iran in crisi, la Turchia è subentrata nel ruolo nemesi di Tel Aviv nell’area. E pare aver deciso che per sradicare il problema bisogna riavvolgere il nastro e cancellare gli aggiornamenti post-1917.

Oltre a questa ottica, già di per sé rilevante, si aggiunge un altro aspetto. L’interesse di Ankara per Gerusalemme ha infatti altresì la funzione di togliere importanza all’Arabia Saudita, custode di Mecca e Medina.

Nel quadro generale, ciò comporta un aumento del peso della Turchia nel bacino Mediterraneo. Ma mentre Ankara osserva, viene anche osservata.

Si ha infatti l’impressione che seguire attentamente lo sviluppo strategico dei turchi, infatti, ci si sia messa Roma. Da entrambi i lati del Tevere.

C’è stato l’incontro della premier Meloni con Erdogan, certamente. E va altresì ricordato che i due Paesi ospiteranno insieme gli Europei di calcio 2032, un evento che va ben oltre le mere dinamiche sportive.

È tuttavia l’interesse della Santa Sede ad essere ancora più rilevante. Specie con l’avvento di Leone XIV.

È infatti improbabile che sia un caso che papa Prevost abbia effettuato il suo primo viaggio apostolico proprio in Turchia. Un paese in teoria laico, ma che in pratica molto attivo nella persecuzioni ai cristiani di stampo giuridico, istituzionale e sociale.

Punto che infatti il pontefice non ha mancato di sottolineare, con la sua garbata fermezza, nell’incontro con Erdogan. In tale occasione Leone ha evocato il rispetto della pluralità religiosa e il ruolo che i cristiani possono offrire alla società turca, di cui essi si sentono parte integrante.

A corollario, il pontefice ha poi richiamato la figura di Giovanni XXIII. Il quale, come Angelo Roncalli, svolse una parte della sua missione di vescovo quale delegato apostolico ad Istanbul.

Papa Prevost ha poi concluso con un appello, affinché la Sublime Porta eserciti un ruolo di garanzia di stabilità nell’area mediterranea. Definendo il Paese un ponte tra Est ed Ovest, tra Asia ed Europa.

Insomma, gli occhi della Turchia sul Mediterraneo hanno a loro volta destato le attenzioni non di un soggetto qualsiasi, ma di uno che ha uno sguardo globale. Anzi, l’unico rimasto, vista la progressiva smobilitazione degli Stati Uniti.

Se dunque Ankara pianifica di riprendersi Gerusalemme, lo farà con addosso gli occhi della Santa Sede. E, chiedersi, alla maniera di Stalin, quante divisioni ha il papa, potrebbe non essere la migliore delle trovate, visto il contesto.

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