Un signore. Ed un personaggio, certo, ma non costruito ad hoc per dare una certa immagine di sé e farsi ammirare nelle piazze come i farisei.
No, guardi Giovanni Trapattoni in un qualsiasi video e hai l’impressione che sia davvero autentico. Leggi il suo libro, “Non dire gatto”, e anche da lì ricavi la medesima sensazione.
Quindi delle due l’una: o il Trap è uno che si nasconde molto bene, e allora bravo lui, o è davvero quel mister che ha il sapore degli uomini di una volta. Quelli che non ci sono più, quelli della tempra forgiata da tempi duri ma puri.
“Non dire gatto”, come accennato, è un libro umile, che ha l’odore della campagna. Quella in cui Giuanin, come lo chiamava il suo maestro Nereo Rocco, è cresciuto ed ha iniziato a tirare i primi calci ad un pallone fatto in casa.
Ma è un libro umile anche perché il mister da Cusano Milanino, pur avendo tutta la legittima facoltà di rievocare i suoi numerosi successi, sceglie in realtà soffermarcisi brevemente, senza calcare troppo la mano. Molta più importanza hanno le relazioni umane, gli episodi, le emozioni.
Proprio per questo, “Non dire gatto” risulta un libro alquanto scorrevole. La vita di Trapattoni passa infatti davanti agli occhi del lettore in maniera fluida, ma allo stesso tempo tutt’altro che superficiale.
Non siamo in grado di valutare, inoltre, se, a livello tecnico, il Trap da allenatore abbia effettivamente applicato in campo il Catenaccio. Sicuramente però, per certi versi possiamo affermare che lo abbia fatto nella sua biografia.
Come accennato poco sopra, nel suo racconto Trapattoni tende a “chiudersi”, non puntando i fari su tutti i titoli vinti. Da buon catenacciaro, tuttavia, ogni tanto si lancia in pungenti contropiedi, attraverso aneddoti inaspettati, che finiscono per sorprendere il lettore.
“Non dire gatto” risulta quindi un’importantissima testimonianza del mondo del calcio che fu, con un occhio a quello che è. Uno sguardo cruciale, anche per capire il calcio che sarà.