In un’intervista sul numero 29 di Calcio 2000, anno domini 2000, Sven Goran Eriksson raccontò di quando, in trasferta a Roma con il suo Benfica, guardandosi intorno disse a sé stesso che quello sarebbe stato un bel posto in cui lavorare. Non lo sapeva ancora, ma nella fascinosa Città Eterna ci avrebbe effettivamente soggiornato, per giunta su entrambe le sponde del Tevere.
Sven Goran Eriksson se n’è andato oggi. È stato un addio lungo, iniziato l’anno passato quando, come un fulmine a ciel sereno, l’allenatore svedese comunicò che lo affliggeva un male incurabile, che lo avrebbe portato ad uscire di scena anzitempo.
Il cordoglio per la sua scomparsa è stato trasversale, coinvolgendo non solo addetti ai lavori del mondo del calcio, ma anche figure istituzionali e del mondo culturale. Ad emergere, nei racconti, è stata soprattutto la sua signorilità, il suo aplomb, e quel suo calore che nel tempo lo aveva reso sempre meno affine allo stereotipo che si può avere di uno svedese.
Anche il suo messaggio d’addio è stato ampiamente condiviso, e a ragione. In una fase storica in cui la coscienza collettiva sembra vincolare l’esistenza a quanto una persona è in grado di portare un contributo unicamente tangibile, l’invito di Eriksson a prendersi cura della propria vita e a viverla fino in fondo è un concetto meravigliosamente anacronistico.
Naturalmente, però, la carriera di Svennis non è stata solo il suo drammatico ma emozionante epilogo, né le sue qualità umane, ancorché attinenti al suo mestiere. Poca rilevanza ha invece avuto il ricordo del suo essere un pensatore innovativo, quando il gioco a zona era ancora una scelta e non l’unica opzione.
Se fu uomo di contraddizione fuori dal campo, come testimoniano le cronache, lo fu anche in campo. Apprese infatti il suo 4-4-2 all’inglese abbeverandosi alla fonte dell’invece anticonformista sir Bobby Robson, e lo schema base del calcio britannico fu il filo conduttore del suo quinquennio sulla panchina dei Tre Leoni.
Tappa che si concluse nel dileggio da parte degli sciovinisti tabloid inglesi, che di Eriksson avevano minato l’immagine fin dal suo arrivo. Uno spreco, per loro, anche se ciò ha finito per arricchire la carriera di Svennis di successive esperienze in giro per il mondo che sono testimoniate nella sua interessante autobiografia. Un must già prima, e a maggior ragione ora.