“Grazie mister! Grazie di tutto… Lavorare con te è stato un piacere enorme. Grazie dei tuoi consigli ed ogni parola che mi hai dato. Auguro tutto il meglio a te e il tuo staff. Spero che ci rivedremo presto!”. In un mondo tanto ipocrita e ruffiano come quello del calcio, dove prevalgono la lode al capo di adesso e la critica (a giochi fatti, of course) al capo di ieri, le parole di Paulo Dybala verso José Mourinho stonano alquanto.
E non si tratta nemmeno di un unicum. All’indomani della partenza di Mou dal Tottenham, Harry Kane, sorpreso dall’esonero, indirizzò queste parole al suo ormai ex-manager: “È un allenatore fantastico. Abbiamo avuto ottime conversazioni, e abbiamo continuato a comunicare anche in seguito. Con Mourinho ho avuto proprio un buon rapporto. È un peccato non aver potuto proseguire, ma la mia esperienza con lui mi resterà dentro per il resto della carriera”.
È dunque questo ciò che rimane de fu Special One? Un conversatore brillante in grado di stabilire una connessione emotiva con i giocatori, ma oramai totalmente inadatto a svolgere la professione che lo ha fatto balzare agli onori della cronaca?
Così pare. E tuttavia, con buona pace di chi lo riteneva solo un eccellente allen-attore, c’è stato davvero un tempo in cui José Mourinho era un tecnico all’avanguardia. Uno che parlava dell’importanza capitale del modello di gioco, guidato da un insieme di principi che garantissero organizzazione armoniosa e dinamica.
Ma ancora di più, come racconta anche il giornalista di calcio Michael Cox nel suo libro Zonal Marking (2019), ciò che all’inizio del nuovo millennio aveva reso Mourinho un vero e proprio asso della panchina era il suo approccio alla preparazione della partita, che ha ispirato moltissimi dei colleghi, spesso anche divenuti nel tempo anche rivali. Celebre, su tutti, la sua “periodizzazione tattica”, ovvero, in estrema e di certo incompleta sintesi, la pratica di implementare insieme la fase fisica, tecnica, tattica e mentale dell’allenamento, rifiutando in blocco l’idea che esse potessero essere separate.
L’idea che la palla fosse strumento indispensabile nelle sessioni settimanali, la dedizione al ricreare in allenamento la situazione della partita, l’attenzione al posizionamento dei giocatori rispetto a compagni ed avversari, il pressing mirato e la conservazione delle energie quando in possesso di palla, lo scouting pre-partita mirato per ogni giocatore, sono stati tutti aspetti che hanno decisamente fatto breccia nella coeva generazione di allenatori ed in quelle successiva. E questo a tal punto che, come dice lo stesso Cox, il Porto di Mourinho era paradossalmente più simile ad una squadra di Guardiola rispetto a quanto, invece, fosse accostabile alle seguenti tappe della carriera dello stesso tecnico di Setubal.
A questo punto, come avrebbe detto Lubrano, la domanda sorge spontanea: Mourinho è rimasto fermo a vent’anni fa? No, perché comunque ha vinto ed è stato in grado di farsi amare da moltissime delle stelle che ha allenato. Allo stesso tempo, però, è abbastanza evidente che non sia stato in grado di mutare pelle come hanno fatto i colleghi, i quali, come già detto, hanno attinto a piene mani dalle sue teorie.
La carriera del portoghese dunque è alla fine? Sì e no, nel senso che fra poco farà sessantun anni, e dunque è verosimile il meglio sia già alle spalle. Va da sé che è probabile che riesca a conquistare ancora qualche trofeo, in Europa oppure in qualche Eldorado arabo, anche se pare che in terra saudita, esattamente come già avvenuto in Cina, la bolla speculativa del calcio abbia iniziato a mostrare le prime crepe.
E però… Però potremmo azzardare anche un suggerimento: perché Mourinho non fa come Dan Peterson o Julio Velasco, che nel tempo hanno integrato la propria carriera di allenatori con dei cicli di conferenze aziendali sul tema del management e team building? Sarebbe in fondo una sicura miniera di preziosi aneddoti, alcuni dei quali già emersi attraverso la florida letteratura relativa allo Special One.