Zero Titoli: Andrea Guglielmino

Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori

Andrea Guglielmino, quanti titoli hai vinto?

A memoria non me li ricordo. Facciamo un conto rapido: il Premio Domenico Meccoli, il Premio Dipendenze, il BergamOscar, due volte Cassino Fantastica come Miglior Scrittore, il Moschettiere di Bronzo dei Fumetti Avventura Award… Siamo attorno ai sei-sette titoli.

Il primo che ho vinto però è stato un cappello di Indiana Jones, residuato di un’anteprima stampa con una recensione de “Il Teschio di Cristallo” su Screenweek.

Antropocinema. Il cinema è a misura di persona?

Il cinema dovrebbe essere sempre di persona, almeno secondo me. Anche perché fatto da persone per persone.

Questo è il cinema che piace a me, il cinema che abbia anche un asset popolare e che quindi sia fruibile, comprensibile, e se ne possa parlare. Mi piace un po’ meno invece il cinema che sia pura espressione dell’autore.

Al tempo stesso, però, mi piace che il cinema popolare sia anche autoriale. E quindi il grosso dramma che viviamo negli ultimi anni è la scomparsa totale del gesto autoriale all’interno del cinema pop.

Perché? Perché sono subentrate dinamiche come la rete, l’influenza del pubblico, i produttori che mettono bocca su tutto.

Però io amo che il cinema sia a misura delle persone. Io faccio l’antropologo del cinema, che non dico che è un mestiere che mi sono inventato, ma che comunque fanno in pochi, ed in questo senso mi piace capire il pubblico

Mentre il critico cerca di capire l’artista, l’arte, il regista, l’antropologo studia il mito per capirne il ricettore, per capire la società, il pubblico. Per capire l’umanità.

Per cui si, dovrebbe essere sempre a misura di persona, e mi auguro che lo resti sempre.

Star Wars il mito dai mille volti. C’è anche il tuo, lì da qualche parte?

Sì. Chiaramente, quando mi metto il cappello dell’antropologo, mi spoglio del mio opinionismo critico. Tanto che, quando parlo dei film di Star Wars o di qualsiasi altra saga o materia narrativa di cui decido di parlare non faccio distinzione tra film belli o brutti, film che mi sono piaciuti o non mi sono piaciuti, ma li analizzo tutti come corpus narrativo di un unico mito che cambia di volta in volta, e che cambiando mi dice qualcosa della società a cui il mito si rivolge.

In Star Wars l’esempio che porto sempre è l’uso della Forza. Negli anni Settanta è un uso telefonico-televisivo, una voce lontana, perché il pubblico di quegli anni capiva quello, avendo telefono e televisione.

Poi arriva la nuova trilogia dove Rei e Kylo Ren si vedono a galassie di distanza. E quella è una rappresentazione del nostro modo di comunicare, cioè Skype.

E poi si arriva alla deriva finale, con cui si scambiano materialmente gli oggetti attraverso l’uso della Forza. Scherzando ma neanche troppo ho detto che quello è il momento in cui la Forza diventa Amazon.

Prima non era facilmente concepibile l’idea che con l’uso della Forza uno si scambiasse una spada laser. Oggi invece questa cosa si sviluppa, e questo ci dice qualcosa della società.

Questo è il concetto di antropocinema per me: capire come cambia il mito per adattarsi alle persone che lo raccontano, e, soprattutto, a quelle lo devono recepire.

Terminator-Il tempo è una macchina. Una Panda, una Ferrari o una Tesla?
È un orologio! La vera macchina del tempo è l’orologio. Pare che non sia possibile viaggiare nel tempo, ma si può misurare.

Viene da chiedersi se il tempo esisterebbe ancora, se tutti gli esseri umani morissero nello stesso momento.

Altra domanda: in che modo una macchina concepisce il flusso del tempo, visto che quest’ultimo è una convenzione prettamente umana? Nel momento in cui le macchine arrivano a concepire il tempo, come nel caso di Terminator, non possono che concepirlo come una macchina.

E nella visione di Skynet è una macchina che si è inceppata quando hanno vinto gli uomini. E quindi cosa fa Skynet? Manda qualcuno indietro nel tempo per cercare un reboot, un punto di ripristino.

E a tal proposito, reboot, termine che oggi usiamo tantissimo a livello cinematografico, è un termine di origine informatica. La prima volta che l’ho sentito usare è stato con Batman Begins di Nolan, in un periodo in cui i computer si inceppavano e si riavviavano.


Colpo di scena. Anche tu, come Mike Bongiorno, hai “amici ascoltatori”?

Me lo auguro! Io dico sempre che ho pochissimi follwer ma moltissimi amici.

Attraverso il mio profilo social, io racconto tutto, dalla mia stomia alle mie vacanze, dai fumetti che escono alle soddisfazioni che ho, cercando di mantenere una linea narrativa che corrisponde al mio modo di intendere la vita.

Quindi ho amici ascoltatori ed amici lettori. Ed io rispondo a tutti: ci sono tante personalità di internet, anche miei ex-colleghi, che non rispondono più, che se tu mandi un messaggio non ti scrivono, non ti mettono neanche un “mi piace”.

Perché, beh, perché non è indicato. Se rispondi a tutti non sei un’entità astratta. Io preferisco rapportarmi rispondendo a tutti, a seconda del tempo che ho a disposizione.

In merito a Colpo di scena, non riguarda chiaramente Mike Bongiorno. Si tratta piuttosto di una raccolta di racconti che rappresenta il mio modo di narrare, che spesso ha all’interno il plot twist… shamalayano della situazione.

Poi la letteratura in questo senso è fantastica. Con cinema e fumetto hai le immagini che sono una potenza ma anche un vincolo. Certe cose le puoi fare solo con la letteratura: pensiamo a Il pianeta delle scimmie, in cui nel libro la storia era narrata da due astronauti che alla fine si scopriva essere scimmie.

Al cinema questo non lo puoi fare. C’è l’inquadratura, e con l’inquadratura avresti visto subito che erano due scimmie.

Hai scritto per tre riviste: Mostri, Alieni, Gangster. Incontreresti più volentieri un alieno o un gangster?

Un alieno gangster! Un Jabba the Hutt, ad esempio.

Nella mia carriera li avrei incontrati volentieri perché sono state il punto di partenza della mia carriera da fumettista, che è una parte a cui tengo tantissimo.

Devo anzi dire che fare fumetti è la cosa che mi piace di più. Ho fatto tante cose, dai saggi al cinema, fino al giornalismo, ma quando mi metto a fare narrativa per fumetti è proprio la mia vocazione.

Tornando alle tre riviste, si tratta di tre produzioni antologiche, con storie a fumetti brevi.

Mostri esisteva già negli anni Novanta ed è stata poi ripescata dalla Bugs Comics: ha avuto successo, e quindi dall’horror siamo passati alla fantascienza con Alieni, e poi c’è stato questo tentativo con il noir con Gangster, anche se a causa della pandemia ne è uscito un solo numero, che pure era andato abbastanza bene.

Tre numeri di Samuel Stern: Il Secondo Girone, Il Quinto Comandamento, Ritorno al Girone. Ti sei lasciato influenzare dalla Divina Commedia?

È stato il mio esordio su un fumetto da edicola da novantasei tavole, in formato bonelliano. Chiaramente “Il secondo girone” è un titolo dantesco, anche se noi lo usiamo in maniera impropria: io mi riferisco al secondo girone come al girone dei lussuriosi.

In realtà avrei dovuto intitolare la storia “Il secondo cerchio”. Ma se l’avessi titolata “Il secondo cerchio” sarebbe stato un esame di geometria!

Poi è molto evocativo convertire la concezione in girone: il “lettore medio” che non conosce Dante approfonditamente si trova più a suo agio. Ma in inglese il locale dove sono ambientate queste storie, che in realtà è un bordello freak, si chiama “The second circle”.

Gradualmente abbiamo iniziato a chiamarlo semplicemente “il girone”. C’è stato un seguito, perché è stata una storia molto amata, ma c’è voluto tanto perché volevo farlo con lo stesso disegnatore, Stefano Manieri.

Nel frattempo è “Il Quinto Comandamento”. Mi hanno detto che ero un po’ fissato con i numeri, ma in realtà è stato abbastanza casuale: il comandamento di cui si parla è “Non uccidere”, e si parla di eutanasia e di attentati all’epoca dell’IRA.

Chiaramente Samuel Stern è una serie su un esorcista, quindi è una serie a tema religioso. E vengono fuori anche tematiche come l’horror.


L’Era dei Bonellidi. È un’era ormai passata o tornerà?

Beh, la Bugs Comics, che pubblica Samuel Stern ed ha pubblicato anche contestualmente il saggio L’Era dei Bonellidi, vuole che resti l’era dei bonellidi in edicola.

I bonellidi sono quei fumetti che nel formato e un po’ nelle tematiche rifanno il fumetto popolare com’è stato reso famoso da Bonelli. Ed anzi, è ancora poco chiara la differenza tra “Bonelli” e “bonellidi”.

Sono quelli che sono passati per imitazioni, ed effettivamente nella maggior parte dei casi e lo erano, ed anche brutte, però altri invece altri hanno lasciato il segno, penso a John Doe o Lazarus Ledd,che hanno formato autori che poi sono andati a lavorare in Bonelli o hanno fatto delle carriere importanti.

Al momento Bugs Comics ha in edicola due bonellidi, Samuel Stern e Kalya. Il problema però è restarci, in edicola, con il formato bonellide

Il momento è difficile: un po’ perché le edicole stanno diminuendo, un po’ perché i lettori sono sempre di meno ovunque, anche per testate più importanti.

Quindi non so se tornerà un’era dei bonellidi, perché l’essere in edicola è fortemente costitutivo del formato. Però sicuramente si possono fare trovare forme di adattamento: purtroppo c’è anche l’aspetto produttivo, anche se vogliamo tutti essere soltanto artisti.

Con I Primi Cento hai voluto riflettere sul fandom. Ma il fandom è croce e delizia, o solo una delle due?

Non lo so, perché io sono comunque una figura a metà. Adesso comincio a relazionarmi con questo mondo come autore, ma la maggior parte della mia vita l’ho passata ad essere fan, anche se per me è un termine molto estremo.

Si parla spesso di “fandom tossico”, ma lo vedo come un sovraccarico, perché il fandom è già tossico. Nel caso de “I Primi Cento” io ho preso Dylan Dog come modello

Oggi lo ritengo, in ogni caso, il fumetto più importante della mia carriera. E ci tengo a dire che il fumetto è mio e di Marco Scali, che è stato veramente determinante nello sviluppo.

Noi volevamo parlare non di Dylan Dog, ma dei fan secondo i quali erano meglio “i primi cento”, inteso come “primi cento numeri di Dylan Dog”. Che sono un simbolo, un non-luogo, una collocazione della nostra percezione di quell’icona specifica.

Marco ha avuto l’idea di umanizzare questi fan, e di provare a capire perché fossero così furiosi, convinti che il loro idolo li avesse traditi. E questa stata un’autoanalisi, perché alla fine tutti vorremmo curare Dylan Dog.


Garibaldi vs Zombies, Garibaldi vs Mickey, Garibaldi: Risorgimento, il nascituro Garibaldi vs Frankenstein. Perché proprio Garibaldi?

È stato un modo per essere riconoscibile. Quando non mi conosceva nessuno, meno ancora di adesso, io non sapevo come fare: non avevo Batman, né Dylan Dog, né l’Uomo-Ragno. Non me se filava nessuno.

Sapevo più o meno come si faceva un fumetto perché avevo fatto la Scuola del Fumetto come disegnatore, e conoscevo anche i meccanismi della sceneggiatura. Inoltre, scrivevo già per il cinema.

Sono passati già quindici anni dalla prima scintilla di “Garibaldi vs Zombies”. Ero in redazione a Cinecittà, fumavo il sigaro (adesso ho smesso) e vedo quest’immagine di Garibaldi che brandisce il tricolore. Un’icona già nota.

Non c’era bisogno di chiedere i diritti a nessuno, perché è un personaggio storico. Gli zombie sono arrivati poco dopo, forse nella stessa giornata.

Quello era il periodo in cui uscivano negli Stati Uniti film come Abraham Lincoln: Vampire Hunter o PPZ – Pride + Prejudice + Zombies. Mi sono detto: “Perché non farlo in Italia?”.

Ecco, se non hai una firma potente è fondamentale essere sempre dirompente. Tutti reputavano fosse una cretinata, e anche io, ma proprio per questo andava venduto!

Per farmi dare ascolto ci ho messo parecchi anni, e sono arrivato alla conclusione che avrei dovuto produrmelo da solo. E venire dal mondo del cinema mi ha aiutato: mi sono informato sul meccanismo economico, e ho visto che per il fumetto i prezzi erano abbordabili.


Vendicazzari, Uniti!!! è una speranza o un dato di fatto?

Appartiene in parte al mio passato, ma è incredibile come sia vivo il ricordo di quel periodo. Ogni tanto qualcuno mi suggerisce ancora delle vendicazzate.

È stato un periodo molto bello, molto spensierato. Componevo con Photoshop delle immagini buffe e scrivendoci sopra un gioco di parole che faceva ridere.

Era un progetto collettivo. Io ero un po’ l’imbuto: le realizzavo, ma poi i suggerimenti di tutti rendevano questa cosa così bella e così interessante. Peraltro, ora che ci penso, anche per questo avevo vinto un premio, il Liebster Award.

Poi le vendicazzate finite con la pandemia, ho provato a rilanciarle con l’Intelligenza Artificiale ma non sono state molto capite. Anche perché nell’ambito della comunità fumettistica l’IA è un tema controverso.


Hai scritto per Nocturno, rivista specializzata nel cinema di genere. Ma tu ti senti più di genere o degenere?

(ride) Bisognerebbe prima definire “degenere”. Se vogliamo, la degenerazione è quando tu cerchi una tua originalità, anche se essere totalmente originali è un po’ un mito.

Però, come detto, almeno nel proprio ambito, è importante fare qualcosa che ti renda riconoscibile, che fai solo tu. In tanti, ad esempio, hanno imitato Dylan Dog, ed infatti quando ho lanciato I Primi Cento qualcuno ha subito detto “Ah, l’ennesimo plagio!”, “Che cafonata!”.

Io questo lo sapevo, perché quella tipologia di commenti era quella che io mettevo in discussione, prendendola in giro all’interno del fumetto. Ma io non volevo imitare, volevo teorizzare su Dylan Dog e il suo rapporto con il pubblico. E avere un personaggio come Dylan Dog mi permette di dire cose che con l’originale non avrei potuto dire. Questo è degenerare in effetti, in un certo senso.

Quello che posso dire è che adesso è un po’ che non scrivo per Nocturno, con cui la collaborazione era ancillare. Però è stato un onore, perché l’ho letto tanto quand’ero ragazzo, e mi ha fatto piacere che la mia firma fosse sulla rivista.