Zero titoli: Orfeo Orlando

Storie di chi ha vinto lontano dai riflettori

Orfeo Orlando, quanti titoli hai vinto?

Ho fatto parte di quattro squadre che hanno vinto il David di Donatello. L’uomo che verrà e Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, Rapito di Marco Bellocchio e L’ombra di Caravaggio di Michele Placido. Ovviamente, ma questo lo sanno anche i sassi, non li ho vinti io come attore, ma ho portato comunque il mio mattoncino.

Poi ci sono una serie di premi vinti con vari cortometraggi. A spanne, nella mia vetrina sono una quindicina, tra quelli per il lavoro attoriale, come il Visconti alla carriera che mi hanno dato l’anno scorso all’isola di Ischia, e quelli da regista di cortometraggi. Ed in realtà la parola “regista” in bocca a me stride: io sono semplicemente uno a cui piace raccontare storie.

Quindi qualcosa si è portato a casa, anche se con poco clamore. Però ci sono.

Chi è per te l’uomo che verrà?

L’uomo che verrà, seguendo anche la storia del film in questione, è la speranza, sempre più complicata, che nonostante tutte le brutture intorno a noi ci sia sempre una possibilità di rinascita. E che l’essere umano, sul ciglio del baratro, trovi la forza di essere meno peggio di quello che è.

Cosa troverà? Un mondo migliore? Un mondo peggiore? Riuscirà non dico a cambiarlo, ma ad evitare, seppure in parte, di ripetere quanto lui ha vissuto?

Spesso e volentieri me lo chiedo. Tremo molto per gli uomini che verranno.

Ti senti più capo o preferisci fare il Buttafuori?

Non potrei mai fare il buttafuori, non ho il physique du rôle. Però sono sempre stato un capo nel senso che, nonostante fossi il più piccolo della compagnia per altezza, essendo però spesso e volentieri in cortile il più grande ero però quello che trascinava gli altri.

Molti, amici o colleghi, per una parola o per un consiglio si affidano a me anche se loro sono più “buttafuori”. Il vero capo, che non è arrogante o prepotente, è una persona che nei limiti del possibile cerca di aiutarti. Un trascinatore, più che un prevaricatore.

Criminali si diventa. Ma per quale ragione?

Potrei dirti per indole, quella di ognuno di noi. Se, come abbiamo detto prima, speriamo che l’uomo trovi dentro di sé un barlume di speranza, è altrettanto vero, e la storia ce lo insegna che di criminali attuali o potenziali ne è pieno il mondo.

Il Male purtroppo spesso e volentieri vince sul Bene, ma speriamo non definitivamente. Lo vediamo nella vita di tutti i giorni, dove ci sono una competitività, una cattiveria e un’arroganza che hanno già di per sé qualcosa di criminale.

Potrei dirti per noia, perché qualcuno anche se magari nasce in una famiglia ricchissima trova che un’attività delinquenziale sia più eccitante.

Potrei dirti, infine, semplicemente per necessità.

Perché in te vedono L’uomo dalla faccia di ladro, visto che questo ruolo lo hai interpretato spesso?

In quel caso specifico vollero giocare sul mio aspetto, e quello dell’altro attore Francesco Benigno, palesemente meno puliti, che ad un esame superficiale potevano passare per ladri, quando in realtà il ladro era la persona più insospettabile, più distinta. Come poi spesso accade.

Come si dice, l’apparenza inganna.

Peripheric Love. Anche a te è capitato di avere un amore periferico?

Se intendiamo un amore che arriva piano piano, con consapevolezza, sì. Ti faccio un esempio: io e mia moglie ci siamo conosciuti perché siamo stati per tre anni vicini di casa. C’era qualcosa che mi intrigava, ma io vedevo questa ragazza, che era peraltro era molto più giovane di me, come una cosa assolutamente irraggiungibile.

Io avevo già cinquantaquattro anni, venivo da un matrimonio precedente, e tutti mi consigliavano di accontentarmi. Quello invece è stato un amore molto periferico, nonostante abitassimo uno di fronte all’altro, perché è stato proprio preso pian pianino, da lontano, quasi con molta prudenza. C’era qualcosa che ti spingeva, ma tu pensavi di non essere adeguato.

In Zoolander 2 hai interpretato un uomo del circo. Ti sei mai sentito un circense, nel teatro o nel cinema italiano?

Nonostante vedessi che gli altri crescevano ed io rimanevo piccolino, io ho sempre avuto un carattere molto forte. Paradossalmente è stato una spinta: il sabato sera, quando si andava in discoteca e magicamente ti scaricavano tutti gli amici con cui dal lunedì al venerdì si giocava in cortile, io ero l’unico che aveva la macchina.

Allora caricavo il ragazzo senza mani, quello spastico e quello che pesava centotrenta chili, e facevamo le stesse cose che facevano gli altri. E venivano fuori delle scene galattiche, perché insegnavo loro anche a ridere delle sfortune. Se affronti le cose senza piangerti addosso, diventi automaticamente tu quello forte.

Per venire alla tua domanda, mi sono sempre ribellato contro l’utilizzo banale del nanetto. Se io faccio questo mestiere voglio essere giudicato come attore. Poi non sarò mai Favino, non sarò mai Germano, non sarò uno dei miei idoli Robert De Niro, Dustin Hoffman o Al Pacino, però voglio essere considerato un attore, non un fenomeno da baraccone o da circo.

Poi se arriva Ben Stiller e mi chiede di farlo, non sono così permaloso da impuntarmi: capisco, e buonanotte ai suonatori. Anche perché tra l’altro si tratta di una produzione hollywoodiana, ed una di quelle vale tre o quattro delle nostre.

Però, ecco, in linea generale lotto per questa ragione perché molti registi, specie i nostri, vanno molto per stereotipi. Quando poi la mia vita reale è il contrario della parte da sfigato, da pagliaccio, che mi vuoi far fare al cinema, perché non hai voglia di impegnarti a vedermi come un attore a tutto tondo.

Infatti ho apprezzato molto Matteo Querci, che in Non aprite quella bara mi ha utilizzato in un ruolo che ha sicuramente qualcosa di grottesco e di comico, ma anche un aspetto più profondo ed introspettivo.

L’ombra di Caravaggio è un’ombra che abbiamo tutti?

Sì, scadere nel banale o criminalizzare o cercare troppo la pruderie, diciamo che l’essere umano è un po’ in chiaroscuro. Nessuno è perfetto, ed anzi, mi meraviglio quando mi si presentano delle persone perfette. La perfezione mi spaventa sempre.

Volevo nascondermi. Quante volte ti è capitato di volerti nascondere? E perché?

Ecco, questa è una bellissima domanda. Nel senso che adesso tutto si può dire fuorché io sia timido. Invece lo sono stato in quella fase di passaggio attorno ai sedici-diciassette anni, anche se mi prendevo sempre e comunque sulle spalle gli altri.

È una fase che non è durata tantissimo, e che ha avuto un termine ben preciso. Mi spaventava ad esempio il contatto con i negozianti, e quindi aspettavo che scendessero con me mia sorella o mio fratello.

Questo si può spiegare anche con i miei sette anni trascorsi in collegio. Quando sono tornato a casa, alla fine del percorso elementare, rispetto agli altri ero un bambino molto più indietro, emotivamente.

Mi sono serviti un po’ di anni di adattamento. La svolta c’è stata quando sono andato a lavorare con il marito di mia mamma, che aveva preso un bar in via Brocchindosso a Bologna. Cominciando a lavorare nel bar, che è una palestra di vita dove puoi incontrare il gentile, l’arrogante, il prepotente, lo stupido, lo scherzoso, ecco che piano piano mi sono “smollato”, ed è passata la timidezza.

Non aprite quella bara. Nella vita di tutti i giorni in quali casi è importante aprire quella bara, inteso come qualcosa di negativo che ci condiziona? E in quali invece non aprirla?

Ci sono dei momenti in cui è chiaro tu rischi di essere schiacciato da questa bara, e la bara può diventare anche un rifugio. Però io come indole sono più portato a lottare, a cercare di non farmi chiudere dentro.

È invece importante aprirla quando vedi che queste cose possono anche far male alle persone che sono vicine a te. Allora lì a maggior ragione non si può rimanere nella propria confort zone, lì devi reagire per forza, proprio perché se tieni a queste persone non puoi non fare tutto quello che è in tuo potere per aiutarle, con tutti i limiti.


999-L’altra anima del calcio. Quante anime ha il calcio?

Quella che sta perdendo del tutto è quella innocente. Si è persa la poesia, la voglia di stare insieme con gli altri, si è perso il cortile. Sembra una frase fatta, ma porto un esempio.

Quando tornavo a casa dal collegio noi abitavamo in via Vezza, e tra un cortile e l’altro dei due palazzoni che si guardavano noi bambini stabilivamo che le scale erano le due porte. In mezzo c’era un giardino, dove non avevano mai piantato nulla e quindi era brullissimo, e se volevi andare a fare gol nell’altra porta c’erano dei tombini e un muretto che dovevi scalvare ogni volta, per andare in attacco o per tornare in difesa.

Per cui rischiavi o di spaccarti tibia, perone, menisco, testa gambe, braccia, o di diventare anche un calciatore vero. perché non era come adesso dove è tutto fighetto, con il prato sintetico. Questo perché un percorso così ti acuiva l’attenzione.

Adesso inoltre il calcio è diventato un’industria. Una volta a muovere era la passione, ora i genitori incoraggiano i bambini a giocare con la prospettiva di diventare milionari.

Ti senti anche tu L’ospite nel cinema italiano?

Io dico sempre che mi sento anche un padrone di casa di un modesto appartamento, nel senso che se mi guardo indietro, tranne appunto Non aprite quella bara o L’ospite, io ho fatto sempre dei ruoli marginali o da spalla. Però poi penso “C’è gente che non ha fatto un decimo di quello che ho fatto io”pur avendo probabilmente più qualità o più bravura, perché bisogna anche saper riconoscere la bravura degli altri.

Paradossalmente, essere alto un metro e cinquanta è diventato un vantaggio. Non lo dico per finta umiltà, ma conosco ragazzi che io reputo più bravi del sottoscritto che non hanno fatto neanche in minuto di cinema. Probabilmente, quindi, la mia fisicità mi preclude tanti ruoli, ma mi ha anche aperto la porta a determinati lavori, perché se ne cercano uno così, non se ne trovano tanti.

Faccio un esempio: io andai a fare Rome, un kolossal dell’HBO, ai famosi Studi 5 di Cinecittà. Gli americani cercavano disperatamente cinque uomini alti 1.50, e ne hanno trovati uno e mezzo, io e un altro: gli altri erano già 1.60.

Non mi sento un ospite perché se mi guardo indietro e vedo da sono partito… Però attenzione, non è un “Chi si accontenta gode”, ma realismo, il realismo di dirti “Viste le condizioni date, sì, sei un ospite, ma che è stato poi anche invitato, diciamo così, a pranzi di lusso”. E tengo presente, nella mia umiltà, che non tutti entrano in quel Palazzo lì. Anche perché ho sempre avuto il massimo rispetto e la massima attenzione da tutti quelli che ho citato prima anche se avevo solo una piccola parte.