Nell’infinita disputa sulla classificazione delle arti, ovvero su cosa è arte e cosa no, salta all’occhio l’ultima lista che è stata stilata all’incirca nel 2007. Oltre alle classiche pittura, scultura, architettura, musica, letteratura, teatro, sono infatti presenti senza sorpresa il cinema ed il fumetto, ed invece, in maniera più originale ma in fondo comprensibile, la radio-televisione ed il videogioco, meritata new entry del novero.
La presenza di quest’ultimo, tuttavia, suggerisce spontaneamente una domanda: se l’espressione videoludica si estrinseca chiaramente come evoluzione, tramite le nuove tecnologie, del giocattolo, è plausibile prendere in considerazione anche il secondo, nell’elenco delle arti? Di primo acchito la risposta sarebbe no.
È vero infatti che anche il giocattolo è un’opera d’ingegno, ma qualsiasi strumento artificiale de facto lo è, ed esattamente come tutti gli altri il gioco espleta una funzione precisa che non ha punti in comune con il vero fulcro di ogni espressione artistica, ovvero la comunicazione di un pensiero personale. L’industrializzazione di massa del giocattolo, inoltre, parrebbe risolvere ogni dubbio in merito.
Già, parrebbe. Perché in effetti, se uno riprende in mano l’analisi fatta da Max Horkeimer e Theodor W. Adorno in Dialettica sull’Illuminismo in merito all’arte, ci si accorge che ogni espressione artistica andrebbe messa in discussione.
I due filosofi della Scuola di Francoforte, infatti, nel saggio Critica all’Industria culturale, evidenziano infatti come qualsiasi opera d’arte sia diventata, nel tempo, commerciabile. Così facendo, secondo i sociologi tedeschi essa finisce per perdere la sua peculiarità artigianale, divenendo di conseguenza strumento di massificazione dei consumi, largamente standardizzati e concepiti con una forma mentis quasi fordista.
Una visione alquanto dogmatica, ma che allo stesso permette un passo successivo nel ragionamento in merito al giocattolo. Quello che possiamo vedere noi oggi, e che Horkeimer e Adorno chiaramente non potevano sapere è che, ancorché commerciabile, un’opera mantiene comunque intatti i suoi caratteri di espressione dell’ingegno umano che intende comunicare un messaggio, ed allo stesso tempo riceve un feedback interpretativo da parte del fruitore.
Se dunque le caratteristiche dell’opera d’arte sono essenzialmente l’espressione di un messaggio e la contestuale ricezione del feedback da parte del fruitore, possiamo a priori escludere i giocattoli dal novero delle arti? Forse, a questo punto, vale la pena di riconsiderare la questione.
Certo, non bisogna dimenticare che ci muoviamo in un’industria del giocattolo di massa, ormai diffusamente ispirata a protagonisti di altri media, soprattutto eroi giapponesi o statunitensi. Dietro ad ogni giocattolo, nel caso specifico le action figure, c’è tuttavia un pensiero che porta il designer a prediligere una posa o un’altra, un abbigliamento o un altro, e ciò può avvenire solo perché c’è la volontà di mandare un messaggio al futuro utilizzatore, oltre a quella di sfruttare economicamente l’eroe.
Andando oltre, se si guarda ad esempi quali i set LEGO, i modellini di automobili, le bambole o le cucine con accessori, ci si accorge di come i giocattoli cerchino di stimolare un input da parte di chi li fruisce riproducendo la realtà concreta o una verosimile, esattamente come da sempre opera la produzione artistica in ogni propria forma.
Essendo una questione filosofico-culturale, certamente non è possibile esaurire l’argomento in un unico articolo. Però intanto abbiamo smosso un po’ le acque: caro lettore o cara lettrice, sareste disposti a pensare ai giocattoli come arte?